Il racconto di un alpinista qualunque

Dalle masse dure e buie delle abetaie soffuse di nebbie, attraverso la più alta zona dei macigni e delle desolate morene ci siamo portati all’alba, fin sui lembi del ghiacciaio inferiore. Questa zona che come secondo il suo stesso nome “mer de glace” sembra un immensa fiumana congelata, una massa piana, uniforme da lontano, ma che da vicino, dà l’impressione di un tumultuoso mucchio di onde, ora bianco azzurrino, ora bianco grigio, ora bianco splendente.

La mer de glace

I crepacci della mer de glace

Il tumultuoso mucchio di onde

Da questo strano mare, bianco, ininterrotto,  come da fiordi, da punte e nervature oscure e aspre di roccia spezzata, siamo andati oltre, per pareti, spalti, abissi di ghiaccio, lavorando di corda, di piccozza, di ramponi, mentre lì intorno sole: si irradia nel  cielo una luce radiosa, ancora delle brevi erte riprese di roccia poi, in grande  calme curve gelate: la vetta!

Dente del Gigante la Madonnina di vetta

Il Bivacco Ettore Canzio

I grandi seracchi del Bianco

Siamo al confine, intorno si schiude un orizzonte ciclico, totale, un mare composto da tante successive, ora di ghiaccio, ora di roccia, che per la diversa distanza assumono una gradazione di colore fino a perdersi, sfumando e dando il senso dell’illimitato dove emergono immateriali, come delle apparizioni, le forme lontanissime, e ancora altra vetta. E’ l’ora delle altezze solari, della grande solitudine. Dopo queste lunghe ore in cui una volontà tenace si è imposta alla fatica, alla scura paura del corpo, non solo svanisce, come l’eco di un sogno vano, il ricordo di ogni cura e opera delle pianure, ma si realizza anche un mutato senso di se stessi.  L’impossibilità a percepirsi ancora come quella cosa rigida, chiusa ed effimera, che in fondo per i più:  è l’io.  Questa però non è l’esperienza di un mistico naufragio, o di un abbandono sentimentale, qui dove non vi è che cielo e nuvole, l’animo partecipa piuttosto ad una analoga purezza e libertà, e per tanti che faticano a capire quale sia lo spirito, esso percepisce ciò che nel mondo dell’anima ha il valore dell’immensità.

Nei pressi del Grande Bosse: è proprio il monte Bianco

L’attacco alla Tour Ronde
Le luci dell’alba sul Monte Bianco di Courmayeur e la Cresta di Peuterey osservati dallo Sperone della Brenva
La calotta di Vetta del Monte Bianco 4810slm

Proprio appunto su queste altezze gelate, simboli siamo, significati profondi si palesano, sulle vette desiderate.

Sono sempre arrivati i momenti in cui l’elemento fisico e quello metafisico interferiscono e l’esteriore aderisce dentro all’interiore, sono come chiusure di circuiti, laddove la luce che ne scaturisce, è certamente quella di una vita.

Le crestine aeree verso la Zumstein e sullo sfondo la Capanna Margherita
Mont Blanc e Mont Maudit

           

One comment to “Il racconto di un alpinista qualunque”
  1. caro Paolo..

    non ci sono parole che possano esprimere la meraviglia di questi luoghi..

    grazie per avermi donato tale visione……!!@

    un saluto dal collocatore

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