Nel novembre del 1905 Angelo Leosini, giovane naturalista e alpinista di nota famiglia aquilana, perse l’orientamento a causa di una violenta bufera, scendendo dal Corno Grande per il “sentiero estivo”, oggi denominato impropriamente: “la normale”, e precipita nel balzo roccioso che sovrasta l’attuale Via Ferrata Guido Brizio e il sottostante Vallone dei Ginepri, mentre il suo compagno di avventura Ugo Piccinini, nonostante lo scivolamento su dei lastroni ghiacciati, riuscì a fermarsi puntando l’alpenstock (lungo bastone con il puntale di metallo). Angelo ritrovato solo nell’agosto dell’anno successivo da Pietro Di Venanzio, guida alpina di Pietracamela, che dalla primavera del 1906 di tanto in tanto faceva dei sopralluoghi nel Vallone dei Ginepri. Furono vani gli sforzi di ritrovarlo immediatamente dopo l’incidente, in quanto i vari tentativi furono ostacolati da copiose nevicate, nonostante i coraggiosi amici volontari, militari e guide di Assergi avessero fatto ogni tentativo per arrivare al ritrovamento del giovane.
Riportiamo alcuni passi dello struggente libro dal titolo “Lungo viaggio di ritorno” a firma di Massimo E. Leosini.
“…Dopo aver costeggiato l’abitato di Camarda, ad una curva della strada, appare loro il ben noto borgo murato di Assergi costruito sulle radici stesse di pietra della Montagna. Entrarono in paese e ne risalirono la via principale diretti verso la casa della guida cui erano affidate le chiavi del rifugio Garibaldi.”
“…Risalendo faticosamente il lato nord del vallone, dopo una breve ricerca scorsero la sagoma del rifugio Garibaldi, in parte ricoperto dalla neve. Colle dita intirizzite sotto i guanti Ugo riuscì a infilare e girare la chiave nella toppa: una spallata vinse la resistenza dei cardini gelati e entrarono… … La provvista di legna e sterpi nell’interno del rifugio era modesta ed essi ebbero cura di non intaccarla troppo: ma di lì a poco il russare allegro della fiamma li riconfortò e un piacevole calore si diffuse nel ristretto spazio. Bandirono per il momento il pensiero del futuro e un pasto leggero e sostanzioso finì di ristorarli…”.
Il giorno successivo nella tormenta arrivarono al Corno Grande quando ebbero l’intuizione di scendere per la “Via delle Creste”. “…La loro scelta era giusta: gli speroni rocciosi offrivano una relativa protezione e, benché la tormenta aumentasse d’intensità, presto si ritrovarono al di sopra della Conca (Invalidi). Mantenendosi sempre tra loro in contatto di voce o di vista cercarono di riconoscere nel turbinar della neve la Sella (Brecciaio) che li avrebbe ricondotti nel perimetro di Campo Pericoli e in relativa sicurezza. Ma a questo punto si trovarono più esposti e la tormenta li separò. Ugo riuscì ad avvistare in tempo la Sella e a valicarla girando intorno a una roccia mentre Angelo, accecato dal nevischio, s’inoltrò per qualche passo sui lastroni che con pendenza crescente precipitavano verso valle all’esterno del Campo. Si sentì chiamare dal compagno con un fortissimo grido e volle rispondere ma in qual momento, spinto dal vento, scivolò e la sua voce si strozzò nella caduta. A terra continuò a slittare sui lastroni innevati: tentò invano di arrestarsi puntando l’alpenstock che s’incastrò in una fenditura e gli fu strappato di mano. La velocità con cui il suo corpo scivolava verso il baratro, dalla cui presenza era lucidamente cosciente, aumentava rapidamente e nulla avrebbe più potuto frenarla. Il suo pensiero, in quegli istanti decisivi, gli porse l’immagine di una madre che lo aspettava: forse di un’altra persona cara. Ma contemporaneamente egli scorse una dentata cresta rocciosa che, sporgente dalla neve, gli correva incontro a velocità inconcepibile attraverso il suo capo come la lama di una scure cessando però quasi subito per dar luogo ad una strana infinita calma mentre il suo corpo, lanciato nel vuoto, con balzi successivi per un dislivello di alcune centinaia di metri, andava a sprofondarsi nella neve fresca e già alta al fondo del Vallone dei Ginepri. Erano circa le tredici del nove novembre millenovecentocinque…”.