La sera dell’8 settembre del 1861 un plotone del 41° reggimento fanteria muoveva da Isola del Gran Sasso per un’azione di rastrellamento di briganti (1). L’ordine ricevuto dal tenente Sarteschi, comandante l’unità, era di dirigersi alla volta della chiesa di Santa Colomba e di appoggiare contemporaneamente la marcia del resto della compagnia. L’obiettivo dei Piemontesi era una piccola chiesa di montagna dedicata ad una Santa eremita, Colomba di Pallearia o di Pagliara, la cui esistenza è collocata intorno al XII secolo. Il luogo era un rifugio ideale per coloro i quali avevano delle pendenze con la giustizia, oppure non accettavano il conquistatore di turno; il fenomeno del brigantaggio era infatti ricorrente in questa parte del Gran Sasso e gli abitanti della valle Siciliana avevano imparato da tempo a districarsi tra soldati e fuorilegge. Già alla fine del XVI secolo incontriamo un tale “Achille di Antonio” di Isola ricercato vivo o morto, con una taglia di 400 ducati (2). Questi “delinquentes” non dovevano avere, probabilmente, fama di persone pie se le preziose mattonelle di scuola Castellana, che si trovavano nella chiesetta, furono trasportate a valle nella sacrestia della parrocchia di Isola. Nonostante ciò in quella tarda estate del 1861 Colomba non volle abbandonare i partigiani del cattolicissimo Francesco II. Sul far dell’alba, poco dopo la villa di San Pietro in località Fonte Gelata, una violenta ed improvvisa scarica di fucileria metteva in fuga i soldati di Vittorio Emanuele, i quali, nella fretta di fuggire e di uscire dal bosco in un’ora ancora buia, dimenticavano il corpo dell’unica vittima dell’agguato: una guardia nazionale del comune di Isola che in quella occasione faceva da guida al reparto sabaudo. La memoria popolare non ha però dimenticato questo periodo storico, ma lo ha rielaborato fantasticamente. Durante la salita alla chiesetta, escursione che per gli adolescenti di Isola ha il fascino dell’iniziazione, si incontra un piccolo spiazzo dove, secondo gli anziani del vicino paese di Pretara, sono sepolti dei briganti. Poco dopo questo immaginario cimitero si incontra un sasso con la grossolana impronta di una mano: vi sarebbe stata lasciata da Colomba, durante una sosta, mentre si recava al suo eremitaggio. Secondo Petrilli (3) questa chiesa fu eretta da San Berardo dopo la morte di Colomba e consacrata dal vescovo di Penne Sant’Anastasio tra il XII e il XIII secolo. Nel 1595 le ossa furono portate a valle e nel 1645 la chiesa fu restaurata. Questi fatti sono testimoniati da due iscrizioni: la prima posta nella chiesa di Santa Lucia, fuori Isola, e la seconda all’interno della chiesetta del Vùcino, il monte che sovrasta Santa Colomba con la sua sagoma di grosso lucertolone o Scrimone di Santa Colomba, 1912slm. Il culto di Santa Colomba era diffuso particolarmente nella diocesi di Penne: numerosi erano infatti i pellegrini che il primo di settembre risalivano la valle del Ruzzo. Costoro avevano purtroppo la brutta abitudine di portarsi dietro, come suovenirs, i rami degli abeti, in omaggio alla tradizione iconografica che raffigurava la Santa con una palma in mano. Come ogni santo che si rispetti, anche alla Nostra erano attribuite facoltà taumaturgiche, piuttosto modeste, ma estremamente attuali. Colomba veniva invocata contro il mal di testa e coloro che si recavano in quel nido di aquile usavano ficcare il capo in una buca posta sotto l’altare. L’avvento, in epoca molto recente, di altre figure di Santi e la difficile accessibilità del luogo hanno determinato la fine di questo culto che oggi è seguito soltanto a Pretara. Ma l’episodio più bello della leggenda di questa Santa è legato al racconto di un fatto miracoloso. In occasione di una visita del fratello Berardo, non avendo niente da offrirgli, fece fruttificare, in pieno inverno, una pianta di ciliegio. Bellissimo esempio di ospitalità e di amor fraterno! La vicenda di questa coppia di fratelli ricorda quella di Scolastica e Benedetto da Norcia, anche loro fratelli ed appartenenti a quella stessa nobiltà di provincia alla quale apparteneva la famiglia dei Conti di Pallearia da cui discendevano Berardo e Colomba. La residenza di questa famiglia era situata, secondo la tradizione, su di un colle posto ad oriente della montagna. Attraverso intere generazioni la fantasia popolare ha tramandato l’esistenza di un favoloso tesoro nascosto tra i ruderi del castello e guardato da un corpulento diavolo il quale, emergendo dalle viscere della terra attraverso una cavità ipogea situata al centro di una torre, rispediva nelle proprie dimore, a suon di schiaffoni, chiunque tentasse di avvicinarsi. Forse le frequenti visite dei baldi ragazzotti di Isola e Castelli, i quali usavano ficcarsi in quel budello per dar prova della propria audacia, hanno infastidito a tal punto il diavolo che questi non è più riemerso. Ed insieme a lui è sparito non soltanto quel favoloso tesoro, ma anche l’immaginazione e la memoria di un popolo.
- Archivio Comunale di Isola del Gran Sasso, Fascicolo dei reati, delitti e contravvenzioni dal 1860 al 1862.
- Nicola Palma, Storia della Città e diocesi di Teramo, vol III, Teramo 1978, 3^ Edizione, pag 182.
- Raffaele Petrilli, Gli eremitaggi del Gran Sasso, Teramo 1895.