Fino a qualche tempo fa si pensava che la sorgente dell’acqua scoperta sul lato meridionale di Monte Circolo fosse a servizio dell’antica Città di Aveja, attraverso un acquedotto, la cui costruzione rappresenta un’opera di alta ingegneria. Molto probabilmente non è così… Da una ricostruzione dello scrittore e studioso, nativo di Fossa: Igino Di Marco (1894-1989) pubblicata nel 1963.
La Fonte
“Appena costituitosi a nucleo abitato, è logico che Fossa abbia pensato , per prima cosa, all’acqua potabile per le persone e gli animali. A circa il 1200, se non prima, fu costruito l’acquedotto che, da poco sotto il Castello d’Ocre ov’era la sorgente (a circa due metri sotto terra) girando il lato a levante del Monte Circolo e sfruttando la naturale pendenza del terreno, portava l’acqua fino alla parte più bassa del paese. L’acqua scorreva nel rigagnolo di fondo di una trincea in muratura alta poco più di un metro, larga meno, lunga un paio di chilometri, coperta con volta reale di pietre a fior di terra. Per quei tempi era qualche cosa: l’acqua era buona, leggera ed era sufficiente alle 40-50 famiglie di allora (l’acqua di rifiuto se n’andava liberamente giù per il margine della strada verso “Le Porticelle” –allora le case non c’erano- e dava il nome alla strada: Il Rio della Fonte).
A circa il 1700 l’ultima parte di tale acquedotto venne immessa in tubature di ferro e fu costruita, sempre a Piedi la Terra, una fonte nuova, in pietra lavorata, con due cannelle e un grande ben disegnato abbeveratoio (il pilone). Non si pensò a fare un serbatoio sicché l’acqua a volte si sciupava, a volte non bastava. Ma così fatto l’acquedotto già doveva servire una popolazione più che raddoppiata (100 fuochi nel 1669) e già non bastava più nel 1861 (270 famiglie) tanto che nel 1900 s’impose il problema del portare a Fossa nuova acqua ciò che solo in parte poté farsi prendendola dal vallone dei Frati. La vecchia cara Fonte, la prima opera di un paese nascente, fu demolita in seguito alla costruzione del Ponte nel 1927. E che di essa va scomparendo anche il ricordo specialmente ora che la nuova ed abbondante acqua di San Felice, alimentando le 8 fontanine del paese e la molt’acqua nelle abitazioni fa trovare ben misera e dimenticabile cosa quella che fu la poca acqua di San Panfilo e che dissetò Fossa per oltre sette secoli (Con l’antica Fonte è scomparsa anche l’acqua, deviata fin dalla presa sorgiva verso Fonte d’Ocre, ciò che è stato un male trattandosi di un diritto secolare all’uso del quale sarebbe stato bene non rinunciare).
Siamo a fine ‘800. Se la piazza della chiesa era il ritrovo festaiolo dei ragazzi, la piazza de La Fonte era il ritrovo dei giovanotti che vi convenivano per stare insieme, guardare le donne (lì per l’acqua; commentarle; intenzionarle –forse “rimorchiarle”-) e, la sera, cantare in coro fino a tardi. Richiamo per tutti erano anche le due botteghe di Ranuccia e di Achille alle quali si aggiunse, nel 1902, quella di Ceccuccio Innocenzi, invalido militare per brutta ferita alla coscia riportata a Milano nel 1898. La piazzetta era deliziosa, varia, movimentata. Vi davano attorno una cerchia di case e, sopra, una quarantina di finestre fra le quali le antiche verande sottogrondaia dei Biancucci e di Ninno-rosso (1300), quelle quattrocentesche del Beato Bernardino (residue di vecchie bifore disfatte per il balcone) e le molte con persiane e ringhiere delle due contigue belle facciate di Casa Lazzaro (1800). Lo spazio centrale della piazza era tutto preso da un grande pilone-abbeveratoio rettangolare in pietra tagliata, di bel disegno settecentesco, in estremo del quale emergeva lo stelo ottagonale a martellina terminato da una calotta coperta (il cappellitto) che erogava l’acqua in origine da tre, poi da due cannelle di ferro. Al pilone si poteva attingere acqua ma non lavare panni per via degli animali che vi abbeveravano in continuazione, e specialmente la mattina e la sera. L’acqua veniva, come già detto, da San Panfilo, abbondante d’inverno, scarseggiante d’estate. D’inverno, quand’era molta, aveva un superfluo che se n’andava parte in due grandi depositi, costruiti sotto la piazza, parte “abballe ‘u ri’ la fonte” verso le Porticelle e il Capocroce. D’estate, invece, quando scarseggiava (e nessuno ne vigilava alla sorgente la spartizione con Fonte d’Ocre) Fossa soffriva veramente la sete e le donne, spesso, litigavano per mettere la conca sotto quel filino che colava da una delle cannelle. Nessuno rimediava. Solo un anno (1881) si ebbe un’idea… geniale: si mise una botte all’Osteria –le bestie bevevano al fiume- che veniva riempita con l’acqua portata da Monticchio dal Bariscianello.
Don Ciccuccio Lazzaro era il supervisore della fonte –pratico com’era e influente- con Piano-piano fontaniere. Solo lui era attrezzato per ricuperare l’acqua (oramai perduta) dai depositi sotterranei, per succhiare l’acqua al pilone (quando poteva) e per mandare il tutto, per via di fogne, all’orto suo di Funnillo o all’orto di qualche altro, Don Ottavio, per esempio. Aveva una pompa aspirante su treppiede, funzionante a mano, con un tubo di presa assai lungo e che arrivava fino al fondo dei depositi. Era, per qualcuno del popolo minuto, una diavoleria miracolosa: faceva venire l’acqua all’insù… “Ma com’era possibile se non si vedeva nulla?”. L’aveva ereditata, con altre macchine , da Zio Gaetano Lazzaro che l’adoperava all’Aquila quando costruiva i piani alti della sua casa al Carmine. Per succhiare l’acqua al pilone, invece, Don Ciccuccio si serviva di due sifoni di latta, ad arco rettilineo con chiave all’uscita e, quindi, comandabile a volontà.
A Fossa, generalmente poveri di fantasia, tutti vedevano, nessuno pensava di ricuperare, in campagna, almeno per gli orti, l’acqua delle pescolle di fiumi e formoni. Oggi la Fonte, col suo bel pilone, la sua bella piazzetta, le sue caratteristiche adiacenze ed anche la bottega di Ranuccia –ritrovo di tutti- non ci sono più, portati via –rivoluzionati- dal passaggio della strada che per due vie –bivio a Giovanni Boccabella- sale verso la montagna. L’Autore di questo libro l’ha ridisegnata in copertina dal diretto ricordo di quando egli era bambino. Al loro posto c’è il Ponte, senza carattere, non bello, e che dalla vecchia cara Fonte conserva solo il nome; “Iu pont’i la Fonta”, nient’altro. L’Aquilano, come tutti, vi si fermano su e commentano; “Mannaggia, però; le cose antiche non vanno distrutte a zero. Si spostano, caso mai!”. E la Fonte –iu pilone, iu fuste, iu cappellitte- potevano essere ricomposti sotto il Girone, con le stesse pietre, al posto di quella brutta vasca circolare che c’è ora e che invoglia tutti a pisciarci dentro.”
Mentre, l’acquedotto a scorrimento di Aveia è apparso nel 1960, durante i lavori stradali nella Via Madonna delle Grotte e di nuovo coperti (quindi perduti) nel 1966 da un muro di sostegno. Il manufatto dell’acquedotto era stato costruito con calcestruzzo e lastroni in pietra, aveva una luce di cm 17 x 15 e si dirigeva, con forte pendenza, verso l’Acropoli della città di Aveia all’Osteria. Il condotto è stato rinvenuto a 2 metri entro il taglio del terrapieno, a 50 cm sopra il piano stradale. Si potrebbe ancora ritrovare…