Tra storia e leggende popolari. La ricostruzione storica è stata favorita dai preziosi appunti del Prof Igino Di Marco (1894-1990), nostro compaesano.
Al margine sud ovest della Conca Aquilana, a ca 12 km da L’Aquila, nel territorio che fu dell’antica Aveja, città vestina, oggi Fossa. La città esisteva già da vari secoli quando, dopo la seconda guerra sannitica (III secolo a.C.) fu occupata dai Romani, i quali vi trovarono circostanze particolarmente favorevoli per farne un centro logistico destinato a rafforzare le loro posizioni in quella parte dello schieramento bellico. Località eminentemente agraria a causa di quell’estesa pianura di cui era tanta parte, ebbe un considerevole sviluppo civile –fu colonia municipio- di cui ancora rimangono cospicui ruderi sul posto, oltre a numerosi reperti variamente distribuiti (o dispersi) in musei ed edifici privati.
“Uno di questi reperti fu rinvenuto a Fossa al principio del diciannovesimo secolo, verso il 1805, dall’archeologo aquilano Francesco Saverio Gualtieri, Sovrintendente locale per gli scavi e le antichità. Era una lapide commemorativa (oggi custodita al Museo Archeologico dell’Aquila) in pietra locale, con cornice sagomata, di cm 47×16, in ottimo stato di conservazione, incisa in caratteri lapidari romano-italici di mm 44 su 6 righe e con ragionevoli abbreviazioni epigrafiche. Fu notata con qualche interesse soltanto formale da vari studiosi e fu riportata dal Mommsen nel C.I.L. come reperita in area Fossa (vol. IX, n. 3608). Della lapide dunque, oltre all’acquisizione generica di un culto mitraico ch’era esistito all’Aveja nel III secolo d.C. (pura notizia di catalogo e basta), non si riconobbe l’importanza storica. Lo stesso archeologo Gualtieri (a quanto lasciò scritto) non pare che vi capisse troppo. Non si sentì la necessità, quindi, di ricercare prima di tutto la prova materiale del culto, localizzando topograficamente lo speleo di cui alla lapide stessa anche perché, ed è importante: a) il territorio dell’Aveja-Fossa, nei suoi particolari vicinali, non era talmente conosciuto da potervi fare una ricerca capillare; b) della parola-chiave consumaverunt sfuggiva la specifica eccezione lessicale, un po’ difficile e inusitata; c) non si tenevano ben presenti (col culto istituzionale del mitraismo e delle sue evoluzioni storiche) alcuni particolari delle caratteristiche strutturali e ideologiche che dovevano avere gli spelei mitraici, che –si noti- anche nello stesso oriente non erano i templi di concerto che, in funzione pubblica, venivano costruiti altrove.
Effettivamente anche oggi, con la nostra mentalità positiva, raziocinante, umanizzata dal cristianesimo e dalla cultura, è un po’ difficile capire il culto del Dio Mitrhra così come era alle origini, fatto tutto di misteri, simboli, riti magici e riferimenti esoterici. Il Dio Mitra identificato (a Roma) nel Dio “Sole Invitto”, diretta emanazione della Natura come forza di vita e diretta concretizzazione nella Dea Terra, con la quale faceva sincreticamente corpo, aveva sede “pensata”, originale e nascente nelle viscere della Terra stessa, in caverne naturali dette “mitrei”, esposte al Sole Levante –inizio risorgente di vita dopo il sonno della notte- e non parate di ombre offuscanti, come potevano essere quelle proiettate da monti o pareti rocciose antistanti, da costruzioni e –specialmente- da vegetazioni di alto fusto.
Ove non fossero esistite grotti naturali, se ne potevano scavare delle artificiali, ma a condizione che, oltre ai requisiti predetti, fossero il risultato di tagli grezzi, non d’accesso agevolato, non rifinite e levigate, non abbellite e fossero praticate da soli uomini, anzi da pochi iniziati soltanto e avessero pianta sfalsata in modo che dall’esterno non si potesse vedere l’interno. E questo era il caso dell’Aveja nel cui territorio, giro giro per largo raggio, non c’era grotta naturale alcuna che potesse accogliere l’idolo del Sole Invitto nelle sembianze di Elio Apollo. Due secoli prima non se n’era potuta trovare una neanche piccola per accogliervi gli idoli di Bacco e Silvano di un luogo sacro. Così che siamo costretti a concludere -non essendovi scelta- che lo speleo della lapide, se spelo deve esserci, non può essere quella grotta oggi sovrastante le case di Fossa, ribattezzata dai locali, “La Ciciuvetta”, aperta su un vasto orizzonte est, chiaramente artificiale, come dimostrano le piccozzate e martellate assai riconoscibili, con le quali fu ricavato l’incavo nella viva roccia, sotto i peschi, in un punto indicato dall’ombra della cimata di Cerro, dal sole levante nel solstizio d’estate. Inoltre (ed è prova irrefutabile) ha l’interno sfalsato: m 1,10 di fronte, all’entrata, e m 2,50 a sinistra. Sembra strano che una grotta così primitiva dovesse essere punto di partenza (o di arrivo) di un dio. Ma così la si voleva si pensi alla grotta di Betlemme…
La lapide dice che fu scavata col metodo della corrosione (consumaverunt), d’altra parte l’unico di quei tempi e che poi è il sistema della piccozzatura. Essa nomina i due dignitari che la vollero, Tito Flacco Luciliano e Tito Avidiacco Furiano, equites pubblici , indica l’anno di fattura, che fu quello di Caracalla Augusto (imperatore associato) console per la quarta volta, cioè il 201 d.C. (inesatto il 213, anno in cui Caracalla era imperatore effettivo, non più augusto, console per la XVI volta). Trattandosi di un lavoro difficile, oltre che alquanto impegnativo, l’iscrizione associa ai due dignitari il nome dell’imprenditore (Publio Peticeno Primo).
Il raggiungimento turistico della grotta, già anticamente piuttosto difficoltoso per la certa distanza dalla città e per la fatica della salita sul fianco del monte (si rammenterà che l’Aveja non era in pianura), è alquanto disagevole anche oggi, fra spunzoni e scivoli di ghiaia, pur con la strada che passa in vicinanza. Però arrivativi e affacciatisi dentro, si subisce una viva delusione. Stando a quella bocca così grande e scura sovrastante fra le rupi, si crede di trovare chissà quale antro buio e profondo. E, invece, si trova un vano piccolo, nudo grezzo, illuminato, volta e pareti tondeggianti, piano terra incavato sotto i piedi. La piccozzatura è evidentissima, specialmente sui filoni frantumati. A braccia tese si toccano, quasi, le pareti che si fronteggiano. Dentro si può stare dritti solo nel mezzo. A sinistra c’è un po’ di profondità, circa due metri, dei quali il tratto di fondo col il pavimento che si rialza di trenta centimetri: una specie di gradino sul quale, non si sa come, doveva essere posato l’idolo su cui batteva, a sinistra, attraverso una fenditura come da una finestrina, il raggio del primo sole.
Nell’ambiente, dunque, le persone non accedevano o, forse, si e no, qualche sacerdote in funzione di augure. Le celebrazioni dei riti, poi, osservanti, propiziatori o esorcistici che fossero, i canti corali, le danze magiche, le processioni stagionali, le feste celebrative si operavano nel piano, vicino alla città, nei luoghi sacri o in aperta campagna. C’era, a volte la partecipazione del bestiame, usanza del tutto locale e che il cristianesimo la mantenuta. Di mattino si facevano le offerte dedicatorie al dio solare e gli spiriti del bene (colombe o tortore, spighe di grano vagamente intrecciate, vino annacquato –sempre- qualche effigie a simbolo con inciso D.S.I.M. Deo Soli Invicto Mitrae. Si sacrificava, si evocavano i defunti, si salmodiava, si iniziavano i neofiti stacciando loro, sul capo, farina di farro. Dal sorgere e dal tramontare del sole, in concomitanza con fenomeni naturali, volo di uccelli, ecc, si traevano responsi che avrebbero dovuto influire sull’andamento stagionale agrario o interpretare il futuro di qualche destino, oppure chissà cos’altro a impressione dei sacerdoti, animisti come si era, superstiziosi, e così come oggi noi non siamo. Di sera si accendevano i falò (a Fossa rimasti con l’uso delle “lunette”), si bruciavano fantocci simbolizzanti gli spiriti del male (oggi si brucia, ricca di significato, la “pupa”), si facevano rappresentazioni, le quali finivano con l’essere più profane che sacre.
Il culto del dio Mithra, dunque, veniva dall’Oriente. Passato per Roma attraverso la Grecia, dopo molti adattamenti e trasformazioni, si affermò col culto al Sole Invitto rappresentato da Elio Apollo, e si diffuse in tutto il territorio dell’impero perché il sole illumina tutti e in ogni dove: negli ambienti militari come dio delle milizie, negli ambienti civili (fra i quali il particolare ambiente dell’Aveja a forte vocazione agraria) come dio dell’amicizia, della pace e della fecondità dei campi. Ebbe anche raffreddamenti e deviazioni di vario genere, ma una forte ripresa sotto Caracalla, il Severo Antonino della lapide, la cui madre, Giulia Domna, una siriaca, era figlia di Bassiano, sacerdote di Mithra ad Emesa nel celebre santuario al Dio Sole. Mithra in persiano significa: “patto”, “concordia”, “intesa Sole-Terra-Uomo”. Quando giunsero ad Aveja, parecchio più tardi, le prime confuse idee cristiane, c’era già, sul posto, un ordinato miscuglio di tradizioni vestine, superstizioni locali, credenze pagano-romane. Le idee cristiane si inserirono in tale miscuglio (a cui, frattanto, s’era aggiunto il culto orientalizzante del Dio Sole) e assunsero, come dappertutto, a poco a poco, molte forme, a volte sacre, a volte profane, opportunamente adattate, tradotte, conciliate, ma tutte umanizzate spiritualmente. Il cristianesimo, difatti, non ereditò il materialismo, sia pure estetizzante, dagli dei pagani. Si ebbero così, ad es., il mistero della Trinità e dell’incarnazione, i misteri del Rosario, le Rogazioni (maggiori o minori) praticate in vario modo anche oggi con le Croci fra i campi per invocare la tutela-difesa delle coltivazioni ed esorcizzare le contrarietà stagionali. Sacro e profano si ebbero nella festa-ringraziamento per la raccolta dei cereali nel solstizio d’estate, poi spostata nel Ferragosto e nella festa dell’Assunzione. La festa del solstizio d’inverno, invece il 25 dicembre, rinascita del Sole, si identificò con il Natale (ugualmente in una grotta), di un altro Sole che, a differenza di quello orientalizzante, ermetico e difficile, portò una fede rivelata a tutta l’umanità. L’idea degli spelei fu, continuata con la costruzione (o la loro trasformazione) di piccole chiese solitarie di campagna nelle quali proprio nel dopo-Aveja si ebbe un esemplare scavato in viva roccia come “La Ciciuvetta”, al sole levante, pulito da ombre, dedicato più tardi, dopo il 1300 a San Rocco: scavata in roccia come lo speleo e sul modello di questo, sulla Via delle Croci. Antico tempietto pagano (al sol levante) successivamente fu trasformato in chiesetta cristiana con modeste pitture del ‘700 e fu sciaguratamente distrutta nel 1971 da una cava di pietrisco. Era di m 3,10 X 1,80 e aveva un piccolo altare in fondo, testimonianza –documentazione di uno stato d’animo, oramai acquisita nei secoli e tanto più cara a ricordarsi in quanto sconsideratamente scomparsa, inghiottita da una banale cava di rena e pietrisco, nell’abulica indifferenza di chi avrebbe dovuto tutelarla per carità di patria, almeno, se non per cultura-.
E chiediamoci, ora, a chiusura, come mai il culto del Dio Mithra nella particolare versione Sole Invitto sia stato portato all’Aveja, proprio nel cuore di una regione (l’Abruzzo) riposta e lontana, fra impervie catene di monti, al di fuori delle grandi vie del traffico. Si è pensato che all’inizio del III secolo a.C., cristianesimo e mitraismo, a Roma, si siano fronteggiati e che gli adepti al culto solare abbiano preferito emigrare verso luoghi sconosciuti e tranquilli. Però l’ipotesi non regge se si pensa che i cristiani, nel predetto secolo, non avevano ancora forza tale –pur con la loro intensa carica umana, ma nell’aria il pericolo delle persecuzioni- per opporre loro il “credo” democratico allo spiritualismo di carattere eletto del mitraismo, misterioso ma non privo di bellezza e di fascino, per giunta favorito dagli imperatori”.
E’ da pensarsi, piuttosto, che il mitraismo, già importato all’Aveja da coloni e reduci dall’oriente, particolarmente adattandosi all’ambiente, abbia avuto conferma, concretezza e organizzazione divulgativa da parte di funzionari d’alto rango, col loro seguito, come dovevano essere i due personaggi nominati nella lapide.