“Enrico Jannetta, nasce a Roma nel 1889 e, come molti ragazzi dell’Italia Centrale, alla giovane età di anni venti, si iscrive alla sezione universitaria del Club Alpino. A ventisei anni parte per il fronte e, come tale, viene destinato alle truppe di montagna. Viene assegnato ad una compagnia di Arditi che hanno un nome di battaglia: i “Mascabroni”, cioè, nel gergo di Cima Undici, i brutti ceffi, le canaglie, quelli pronti a tutto. A comandarli, insieme al Capitano Sala e il Sottotenente De Pol, c’è il Sottotenente Jannetta, l’unico tra gli ufficiali a non essere settentrionale. Sotto la vetta di Cima Undici, nelle Dolomiti di Sesto, il 16 aprile 1916, un plotone di Alpini preparano un attacco ad una postazione Austriaca che occupa il Passo della Sentinella. Sono mesi che gli Alpini preparano l’azione. Gli Austriaci non si sono accorti di niente: i nostri hanno agito sui versanti nascosti agli occhi del nemico, hanno scalato pareti, scavato camminamenti, attrezzato salite e discese con scalette e corde fisse, trasportato armi su e giù per le creste rocciose. Enrico Jannetta, per i superiori è “un ufficiale di poche parole e dotato di belle qualità militari”. Nei mesi che hanno preceduto l’attacco a Passo della Sentinella, un valico largo una trentina di metri tra Cima Undici e Croda Rossa, hanno messo a frutto la sua inclinazione per le scalate alpine. Fino ad allora aveva arrampicato qualche fine settimana sulle pareti nei dintorni di Roma, al Monte Morra e al Monte Gennaro. Durante l’inverno tra il 1915 e il 1916 ha frequentato un corso accelerato di alpinismo sul campo: salite su roccia, su neve, su ghiaccio, uso delle corde, della piccozza, calate in corda doppia. Dal canalino che parte dalla forcella poco sotto Cima Undici i “Mascabroni” si lanciano all’attacco, lasciandosi scivolare sulla neve. Gli Austriaci che si “godono” il sole dell’una non riescono ad organizzare neppure un cenno si resistenza. Alle tredici e quarantacinque il Passo viene conquistato dagli Italiani: degli Austriaci otto riescono a scappare, uno muore, sette sono fatti prigionieri. Il Tenente Jannetta torna a casa con due Medaglie d’Argento, una profonda tristezza per quello che aveva visto al fronte (soprattutto la gara sconsiderata tra ufficiali a ideare azioni brillanti che poi costavano vite umane), ma almeno con un’esperienza alpinistica che a Roma non aveva nessuno. Prima della guerra, con i giovani studenti della SUCAI, che si riunivano in una birreria di Via Crispi (i vertici CAI, vecchi e paludati rappresentanti dell’alta società, li vedevano di malocchio e non concedevano loro di riunirsi nella sede del Sodalizio), Jannetta aveva fatto passeggiate, escursioni, qualche facile arrampicata, e aveva calzato anche gli sci con il “Gruppo Romano Skiatori”. E allora, alla soglia dei trent’anni suonati , era pronto a trasformarsi nel numero uno dell’Appennino.
Prima di lui, al Gran Sasso l’obiettivo era stato quello di salire per le vie più facili: con Enrico si comincia a salire cercando le difficoltà. Due sono state le salite che hanno attribuito a Jannetta la maggior fama: quella della parete nord-est di Corno Grande, il famoso “Paretone” e la cresta nord del Corno Piccolo. In questo capitolo tratteremo solo il “Paretone”. Fino al luglio 1922, nessuno aveva mai concepito l’idea di salire il Corno Grande per il “Paretone”. E a chi poteva venire in mente una cosa del genere? Quelle rocce mettevano paura solo a guardarle: una fortezza smisurata, irta di torrioni, interrotta da cenge e intagliata da un solo lunghissimo canale di difficile accesso. Mille e più metri di rocce esposte al pericolo di crolli; in basso uno zoccolo di prati ripidissimi, quasi verticali. Però proprio questi prati, così verdi quando l’ultima neve si è sciolta, tolgono alla parete quell’aspetto drammatico, che invece ha nei mesi invernali, specie nelle giornate coperte, quando cielo, roccia e neve si amalgamano in un’unica, angosciante tonalità di grigio. “”Per fortuna oggi è una bella giornata, eh?””, fa Enrico ai compagni che lo seguono, quando il sole comincia a illuminare il cielo e il “Paretone” prende i colori dell’alba. Sono cinque ragazzi della SUCAI di Roma; lui è “il vecio”, con i suoi trentatré anni e il suo passato di ufficiale degli Alpini. Avevano trascorso due notti in tenda, in una radura alla base della parete, portandosi dietro una botte piena d’acqua per evitare di dover fare avanti e indietro per i rifornimenti. “”Adesso vediamo che ci conviene fare””. Subito c’erano da affrontare i pendii d’erba: si saliva quasi arrampicando, stringendo i ciuffi d’erba in mano come fossero appigli. “”Sicuri che si passa per di qui?”” “”Penso…” All’inizio orientarsi non fu facile: cercavano la strada ad intuito, salendo, ridiscendendo, zigzagando. A un certo punto dovettero traversare un lastrone inclinato, pieno di detriti, sotto una grande frana che ha disegnato la figura di una farfalla . Finalmente entrarono nel canale che puntava decisamente verso la cresta di uscita: era una gola, piena di neve dura. I sei lo risalirono, tenendosi sulle rocce di sinistra. Con molta prudenza raggiunsero la cresta nord alle quindici e trenta e alle sedici e quindici erano in cima. Poi la discesa sul Ghiacciaio del Calderone e di corsa verso Campo Pericoli per passare la notte al rifugio Garibaldi. Ci arrivarono giusto in tempo per la cena.”