Non è mia abitudine raccontare le storie personali, ma alla luce degli ultimi eventi meteorologici che hanno violentemente colpito sia le Alpi che gli Appennini, voglio riportare un episodio accaduto nell’agosto del 2015 riguardante una mia esperienza in materia di fulmini. In questo racconto utilizzerò due nomi di fantasia, a parte il mio, per rispettare la privacy delle persone interessate, scongiurando il rischio che siano riconosciuti: “Maurilio” e “Gelindo”.
Nella primavera del 2015 nacque una simpatica amicizia con “Gelindo”, il più giovane, e “Maurilio”, già da anni forgiato sia nelle piste di atletica leggera che nelle gare di skirunners, con i quali si iniziò a condividere qualche scorribanda montanara. Un bel giorno si cominciò a parlare di percorrere il “famigerato” “Centenario” in velocità (Il “Sentiero del Centenario” è così detto perché fu attrezzato nel 1974 dalla Sezione Aquilana del Club Alpino Italiano per celebrare i cento anni dalla sua fondazione. E’ un itinerario ricco di vedute panoramiche che variano lentamente e le cui sensazioni si alternano tra l’impegno alpinistico e i vari respiri escursionistici che consentono una sicura identificazione di quanto si riesce a cogliere, spaziando dal lussureggiante lato Teramano a quello Aquilano, più brullo ma nello stesso tempo con fascino particolare). Non si perse tempo, durante la seconda parte della primavera e l’inizio della stagione estiva seguirono rigorosi allenamenti per raggiungere la forma adeguata, con l’obiettivo di chiudere questo percorso al di sotto delle quattro ore. Di comune accordo stabilimmo che una volta a settimana, prevalentemente il sabato, per ragioni lavorative, ci si sarebbe visti per consolidare al meglio la preparazione fisica, facendo un itinerario simile o che si avvicinasse a quello che avremmo dovuto affrontare. Questa scrupolosa e attenta preparazione ci accompagnò per tutta la primavera e l’inizio dell’estate, quando i primi giorni di agosto stabilimmo una data, in considerazione soprattutto del meteo. Da parte mia, già in passato e con altri amici questo percorso era stato teatro di grandi schermaglie, sempre in velocità, che ci avevano proiettato verso lusinghieri tempi cronometrici, perciò l’itinerario era già stato ampiamente collaudato, tranne per i due novizi che volevano misurarsi contro il tempo e l’aspetto tecnico-alpinistico dell’intero percorso. Stabilita la data che non rivelerò, analizzate le previsioni meteo, di buon mattino si partì alla volta di Fonte Vetica dove avremmo lasciato un’auto, che ci sarebbe tornata utile al nostro arrivo nei pressi del Rifugio De Carolis, per poi, attraverso la carrozzabile, andare a riprendere l’altra auto parcheggiata nelle vicinanze di Vado di Corno. Durante il viaggio di ritorno da Fonte Vetica, per tutta la pedemontana, lo sguardo correva verso tutta la cresta aerea del “Centenario” che un tiepido sole stava colorando di rosso, con il pensiero che di li a poco saremmo stati lassù, a “smanettare”, sulle rovinose rocce del percorso. Mi dissi: “il grande momento è arrivato anche per loro”! Il sentiero/carrareccia che conduce a Vado di Corno, a tratti polveroso, ci servì come riscaldamento per poi, arrivati all’intaglio del Vado, far partire le “lancette” per il rilevamento cronometrico. Di tanto in tanto scambiavamo qualche parola, facendo anche una ipotetica previsione sull’arrivo a Fonte Vetica. Terminata la “comoda” carrareccia, una leggera corsetta ci accompagnò fino alla base delle asperità di Monte Brancastello (2382slm), dove avremmo effettuato il primo rifornimento. Ovviamente tutto in autosufficienza, perché su questo tracciato, trattandosi di un percorso di cresta, non ci sono sorgenti, né tantomeno fontane. Superata la prima vetta al di sopra dei duemila metri con un buon tempo di passaggio, ci dirigemmo verso la parte alpinistica del tracciato cioè: le Torri di Casanova, attrezzate sempre nel 1974, con scalette e corde fisse. Il panorama dalle Torri è impressionante in quanto la fragilità della roccia e gli strapiombi intensi verso lo Scrimone di Santa Colomba, lo rendono ancora più severo. Tuttavia noi proseguivamo spediti, anche se qualche nuvoletta ci nascondeva l’orrido sfasciume del versante nord. Che bella giostra ci stava attendendo! L’Infornace (2362slm), il Prena o Pregna (2561slm), per l’aspetto assai gonfio, e comunque la seconda vetta più alta dell’intero percorso. Dopo la foto di vetta il percorso presenta una importante discesa su instabili sfasciumi fino a conquistare il Vado di Ferruccio laddove, in caso di difficoltà, attraverso un comodo sentiero, si può raggiungere Fonte Vetica. Comunque le nostre condizioni erano buone e il rilevamento cronometrico ci confortava, per cui proseguimmo imperterriti lungo il tracciato originario. Superammo agevolmente i saliscendi del Ferruccio, proprio poco prima di arrivare sotto il canalino finale che conduce all’ultima e più alta vetta del percorso, cioè Monte Camicia (2564slms), si alzò un leggero vento e un banco di nubi ci avvolse, ma la visibilità era ancora buona. Nemmeno il tempo di respirare nei pressi dell’agognata vetta finale, incominciò a piovere. Tutto ad un tratto fulmini e lampi imperversarono sulla nord del Camicia, investendo il nostro Vallone di Vradda che avremmo percorso per la discesa finale. Infatti, proprio poco prima di conquistare la Cima, attoniti e sbigottiti da questo cambiamento repentino del meteo con un gesto e una voce perentoria comunicai ai due ragazzi che bisognava scendere di gran carriera per evitare il peggio, abbassandoci il più velocemente possibile per evitare le eventuali fiammate dei fulmini. Nemmeno il tempo di terminare la frase una violenta grandinata si abbatté sulla Montagna e su di noi ed un fulmine colpì “Gelindo” facendolo accasciare rovinosamente al suolo, esamine. Con grande freddezza indicai a “Maurilio” il percorso più breve per raggiungere il Rifugio De Carolis a Fonte Vetica, dove avrebbe trovato un riparo sicuro. Immediatamente prestai le prime cure al malcapitato, con la rianimazione cardiopolmonare, come da protocollo, mentre il turbinio dei tuoni “fracassava” i timpani. Dopo qualche minuto di forte apprensione il giovanotto respirava e parlava in maniera sconsiderata, ma parlava!!! Adesso si poneva il problema di chiamare i soccorsi. Purtroppo in quel punto non c’era segnale telefonico per cui si doveva salire per raggiungere un campo aperto ed effettuare la chiamata della salvezza, però senza abbandonare “Gelindo”. Chiesi a qualche escursionista di passaggio di aiutarmi: tutti erano in preda alla paura dei fulmini, per cui rispondevano di non potersi fermare, finché una giovane ragazza, vista la mia evidente difficoltà, si fermò a darmi una mano. Dopo averle dato delle piccole indicazioni, risalii di gran carriera il vallone, dove potevo effettuare la telefonata della “vita”. Tornato di nuovo sul luogo dell’incidente dov’era “Gelindo”, licenziai la bravissima ragazza e attesi l’arrivo dei soccorsi, cercando di mantenere il giovane in vigile attesa. Erano le h 12,15. Nel frattempo il cielo cupo e minaccioso si era rischiarato, lasciando spazio all’azzurro. Incominciavano a risuonare nel cielo le “pale” della salvezza, d’un tratto comparve la sagoma di colore giallo del velivolo. Mi dissi: “forse il nostro momento non è ancora arrivato”… pensavo solo a “Gelindo”, che ancora vaneggiava, ma respirava e parlava: era l’aspetto più gratificante, seppur nella drammaticità della situazione. Quando scesero i sanitari e il tecnico dell’elisoccorso, mi strinsero la mano; quella stretta possente e sincera fu per me un qualcosa che non potrò mai dimenticare, non foss’altro per aver visto in un momento l’abisso da solo, mentre ora accanto a me c’erano tre angeli custodi che mi rassicuravano sulle condizioni soddisfacenti dell’infortunato. Terminate le operazioni di imbarco, mi ricomposi, nonostante l’acqua scorresse ancora dietro la schiena, e con passo veloce raggiunsi anch’io il Rifugio De Carolis, dove “Maurilio” mi stava aspettando. La stessa stretta di mano dei soccorritori la riservai a “Maurilio”, che aveva anch’egli vissuto un brutto momento. Ma le preoccupazioni non erano terminate. Bisognava recuperare l’auto a Vado di Corno e successivamente arrivare al San Salvatore per sapere qualcosa di più preciso sulle condizioni di “Gelindo”. Infatti, non appena “Maurilio” si riappropriò dell’automobile per far ritorno a casa sua, io mi precipitai all’ospedale del Capoluogo dove il malcapitato era stato elitrasportato. Dopo aver chiesto informazioni al pronto soccorso, mi dissero che il ragazzo era stato ricoverato nel reparto coronarico (UTIC) della struttura sanitaria. Dapprima non mi volevano far entrare, ma dopo aver ascoltato un breve racconto dell’accaduto mi indicarono la stanza ed il numero del letto dove “Gelindo” era stato ricoverato. Con discrezione chiesi alla persona che stava ai piedi del letto ad accudirlo se potevo entrare, ma lo sguardo di ella mi folgorò, come se fosse entrato il diavolo in persona. Riflettei un attimo, con voce pacata mi scusai per l’intrusione e me ne andai, senza avere notizie certe sullo stato di salute di “Gelindo”. Tornai nei giorni seguenti, prevalentemente nel tardo pomeriggio, trovando sempre molti familiari che accudivano il ragazzo. Alcuni di essi mi trattavano come un amico, mentre altri rimanevano impassibili con lo sguardo severo e sprezzante, fino a quando una sera un uomo ed una donna un po’ attempati, sempre con questo sguardo minaccioso, mi rivolsero la seguente domanda, chissà da quando tempo la stavano “covando”; “Perché “Gelindo” lo hai portato fin lassù?” Decisi di non rispondere, girai le terga e, ancora una volta, ritornai a casa, triste e amareggiato da questi comportamenti poco educati. Da quel giorno non tornai più al San Salvatore fino a quando seppi che il ragazzo era stato dimesso ed aveva fatto ritorno a casa. Contemporaneamente alle dimissioni dall’ospedale, mi arrivò la bella notizia: a seguito di quella folgorazione “Gelindo” non aveva riportato alcuna conseguenza. “E vai!!!” Comunque il ragazzo trascorse otto giorni nel reparto coronarico. Tornai ancora a fargli visita a casa, questa volta accompagnato da “Maurilio”, per cercare, in primis di sincerarmi sulle reali condizioni fisico/psichiche del ragazzo e poi per stemperare quel clima gelido che si era instaurato già dalla mia prima visita in ospedale con le persone più care a “Gelindo”. Così non fu…
Amare la montagna e le infinite possibilità che essa offre per lo svago e l’attività fisica, significa riconoscerla sempre come madre/terra e come tutti i rapporti madre/figlio ci deve essere il pieno rispetto per essa. In questo caso possiamo parlare di una tragica fatalità, sebbene avessimo fatto tutto ciò che ci era consentito, le previsioni meteo, le condizioni del percorso, la velocità nell’esecuzione, la partenza alle prime luci dell’alba, non ultime le nostre potenzialità fisiche. Ma tutto ciò non è bastato. La montagna ancora una volta ci ha dimostrato che i pericoli oggettivi non si possono escludere completamente, come quelli soggettivi. E ancora: la nostra esperienza di alpinisti, escursionisti o speleologi ci ha insegnato quanto la montagna non vada MAI sottovalutata e la si debba affrontare sempre con la dovuta consapevolezza, evitandone la banalizzazione che traspare, invece, da molta comunicazione, non solo pubblicitaria, fornendone un’immagine superficiale e distorta. Ricordiamoci sempre che la montagna è così, un ambiente meraviglioso ma impervio, dove l’uomo è un fragile ospite, che non deve mai dimenticare che gli “errori” si pagano caro: perché alla fine, quando “certi” incidenti accadono, quasi sempre di nostri errori si tratta.
Da tutta questa storia rimane solo il rammarico di non aver potuto ristabilire un contatto sereno con le persone più vicine a “Gelindo”, nonostante avessi operato nel migliore dei modi, a me possibile, seppur nella drammaticità del momento, facendo in modo di riportare tutta la “cordata” a casa. Solo una persona, facilmente intuibile, mi è stata vicina, come del resto nella vita, durante quegli interminabili otto giorni che mi hanno separato dal buon esito finale. Come dicevano i latini: “Age quod agis”.