DAI “CREPACCI” DEL GHIACCIAIO DEL CALDERONE AL “GLACIONEVATO”, PASSANDO PER IL ”GHIACCIO NERO” GIA’ DAL 1990: con appunti del Prof Claudio Smiraglia
Il Ghiacciaio costituisce certamente uno degli “oggetti” geografici e paesaggistici più affascinanti del Massiccio del Gran Sasso e nel contempo rappresenta uno dei ghiacciai italiani più interessanti. Non sono certo le sue dimensioni a renderlo tale; la sua superficie non superiore a 5ha ne farebbe, in un altro contesto geografico, uno dei tanti piccoli apparati glaciali o addirittura “glacionevati” di limitatissima importanza. Invece sin dalla seconda metà del secolo scorso la sua unicità nella catena appenninica e la sua localizzazione nell’area mediterranea (Messerli, 1980), hanno attratto studiosi italiani e stranieri. Se il primato appenninico del Calderone non è mai stato posto in discussione, la sua qualifica di “ghiacciaio più meridionale d’Europa” non ha sempre trovato pieni consensi. Nella Sierra Nevada spagnola si localizza, ad una latitudine inferiore a 38°, un apparato che prima della fine del secolo scorso costituiva un piccolo ghiacciaio con una superficie di circa 14ha; dopo decenni di continuo arretramento, il Ghiacciaio del Corral di Velata si è ridotto ad una piccola placca di nevato (Messerli, 1967).
Anche il Ghiacciaio del Calderone (latitudine 42° 28’ 15” N), ha subito, come si vedrà più oltre, una notevole perdita di area e di spessore; allo stato attuale della ricerca non è tuttavia ancora proponibile una sua declassazione a livello di semplice glacionevato. Del resto la discussione fra gli studiosi se il Calderone dovesse essere considerato un vero e proprio ghiacciaio, è piuttosto antica.
Con le osservazioni di Marinelli e Ricci (1916) che sottolinearono la presenza di crepacci, di una spiccata foliazione, di ghiaccio compatto nel settore inferiore, di evidenti morene frontali e laterali, il carattere essenzialmente glaciale dell’apparato fu pienamente confermato e trovò l’appoggio di studiosi stranieri come Klebelsberg (1930); il Calderone figurò dunque a pieno titolo nel Catasto dei Ghiacciai Italiani (C.N.R. – Comitato Glaciologico Italiano, 1962). Già dal 1929 erano comunque iniziate le osservazioni sistematiche di D. Tonini nell’ambito delle campagne annuali promosse dal Comitato Glaciologico Italiano, che le proseguirà per un trentennio, dandone notizia in numerosi articoli (ricordiamo solo Tonini, 1934,1936,1955,1961).
Attraverso accurati rilievi topografici nel 1934, nel 1955 e nel 1960, Tonini evidenzia da un lato la generale persistenza della massa glaciale ai piedi del Corno Grande, dall’altro sottolinea la progressiva perdita di volume dell’apparato attraverso i decenni e la variabilità dell’alimentazione nevosa invernale. In particolare dal confronto fra o rilievi del 1934 e del 1960 si ricava una diminuzione media di spessore dell’apparato di 7 m (corrispondenti a 0,27m/anno), mentre nel settore inferiore si registra un abbassamento della superficie di 20 m (0,72 m/anno); dal punto di vista volumetrico si è avuta una diminuzione di circa 420.000 m3, con un valore medio annuo di 16.000 m3. Che il Calderone abbia rappresentato una massa glaciale persistente è dimostrato anche dalle osservazioni svolte nei secoli passati; ricordiamo in particolare il De Marchi che nel 1573 sale la cima più elevata del Gran Sasso e nella sua relazione, considerata la prima salita documentata di una montagna, segnala la presenza di una vasta massa di “neve perpetua” sul versante settentrionale della montagna; oppure Orazio Delfico che ripete la salita e le osservazioni oltre due secoli più tardi nel 1794. Per quanto riguarda l’Ottocento il Calderone è nitidamente rappresentato, oltre a varie altre citazioni, nella carta “Gran Sasso d’Italia”, pubblicata nel 1887 a cura della Sezione di Roma del Club Alpino Italiano. Per ritornare agli studi del nostro secolo, Tonini nel suo lavoro del 1961 tenta di correlare le osservazioni trentennali sul ghiacciaio con la dinamica climatica del gruppo del Gran Sasso. Egli è ben consapevole che per un apparato glaciale così particolare dal punto di vista morfologico non è possibile utilizzare i classici metodi in uso sui ghiacciai alpini, caratterizzati da una fronte netta e ben distinguibile, le cui variazioni sono misurabili ogni anno. Le sue considerazioni sullo “stato di salute” del Calderone in un evidente contesto di deglaciazione quale si sta osservando dalla seconda metà del secolo scorso, si rifanno sostanzialmente alla presenza o meno di masse nevose residue alla fine di ogni estate, che esercitano una duplice funzione; da un lato infatti proteggono dall’ablazione il ghiaccio sottostante, in particolare attraverso il fenomeno dell’albedo, dall’altra accumulandosi in più annate possono dare origine a nevato e a ghiaccio attraverso i vari processi diagenetici. Utilizzando i dati di numerose stazioni metereologiche distribuite attorno al Gran Sasso, e soprattutto quella di Isola del Gran Sasso, Tonini compie una complessa analisi del clima attraverso l’utilizzo di un particolare indice di glaciazione (che mette in relazione le precipitazioni totali annue con le temperature medie annue, entrambe espresse in funzione delle rispettive medie), egli individua alcuni periodi freddi e umidi favorevoli alla glaciazione, contrapposti ad altri meno favorevoli. Le osservazioni svolte sul ghiacciaio concordano in misura sufficientemente significativa, specialmente per quanto riguarda la seconda metà degli anni trenta e la seconda metà degli anni cinquanta, periodi entrambi favorevoli allo sviluppo del glacialismo. Le osservazioni di Tonini saranno poi proseguite dal prof. G. Zanon dell’Università di Padova, che dal 1962 al 1979 compirà una decina di visite al ghiacciaio. Dopo di allora, per quanto è mia conoscenza, non mi risulta siano state compiute altre osservazioni di tipo scientifico sul ghiacciaio. E’ quindi parso opportuno nell’ambito dei programmi di ricerca della Cattedra di Geografia dell’Università D’Annunzio –sede di Pescara- riallacciarsi a questa tradizione e progettare una serie di osservazioni sul Calderone.
Come primo passo si sono riprese le analisi climatologiche di Tonini per il periodo 1961 – 1985; utilizzando le stesse metodologie e raccordando i dati della stazione di Isola del Gran Sasso con le osservazioni effettuate sul ghiacciaio, si sono individuati due periodi favorevoli al glacialismo verso la metà degli anni sessanta e nella seconda metà degli anni ottanta, in coincidenza con il fenomeno di espansione glaciale, seppur di limitate dimensioni, avvenuta sulle Alpi, fra gli anni sessanta e gli anni ottanta. I primi risultati di questo studio sono stati presentati al Convegno sulle “Variazioni climatiche recenti (1800 – 1990) e le prospettive per il XXI secolo” svoltosi a Roma nell’aprile 1990 (Smiraglia – Veggetti, 1990), che ha consentito un utile confronto fra eventi climatici e glaciali dell’Appennino e con altre catene montuose. La parte sicuramente più interessante, e anche di più complessa realizzazione delle ricerche programmate, consiste certamente nei rilievi sul terreno. In particolare ci si è posti un problema della quantificazione delle variazioni volumetriche attuali del ghiacciaio, cui si può arrivare attraverso il cosiddetto bilancio di massa. In pratica attraverso la collocazione di una rete di punti di misura distribuiti sulla superficie del ghiacciaio (visualizzati da paline metalliche inserite in fori praticati nel ghiaccio con una trivella a mano), è possibile determinare le variazioni di spessore del ghiacciaio dalla fine di un periodo di ablazione (settembre) ad un altro. Estrapolando i valori misurati presso i singoli punti a tutta l’area del ghiacciaio e tenendo conto della densità media del ghiaccio, si può conoscere il volume di equivalente in acqua acquisito o perso dalla massa glaciale. Le osservazioni e i rilievi compiuti a più riprese durante le estati del 1988 e del 1989 hanno evidenziato la peculiarità e le difficoltà che si incontrano sul Calderone. Si è constatato ad esempio la notevole quantità di neve residua presente sulla superficie dell’apparato nella prima parte dell’estate. Attraverso appositi rilievi si sono misurati nella prima settimana di luglio del 1988 e del 1989 spessori di neve mediamente superiore a 2,5 m con punte superiori a 3 m. Alla fine dell’estate il ghiacciaio appariva quasi totalmente privo di neve vecchia e ricoperto nel settore medio-inferiore da una coltre detritica che solo a tratti lasciava apparire il ghiaccio vivo. La pericolosità del settore superiore, esposto anche a scariche di sassi, non ha finora permesso la collocazione di paline nella parte alta del ghiacciaio , mentre una decina di punti di misura sono stati situati nel settore medio-inferiore. Di questi, collocati alla fine dell’estate 1988, solo quattro sono stati ritrovati alla fine dell’estate 1989. Sono troppo pochi evidentemente per ipotizzare un bilancio di massa per l’intero ghiacciaio. Sono comunque emersi dati interessanti sugli spessori di fusione, che vanno da un minimo di 70 cm di ghiaccio a un massimo di 200 cm nella parte più bassa. Alla fine dell’estate 1989 sono state collocate paline più robuste che si spera resistano alle scariche di sassi, alle valanghe e……agli escursionisti. Di certo l’area del Calderone appare caratterizzata da una dinamica morfologica estremamente rapida e attiva, grazie soprattutto alla fusione di masse imponenti di neve e ai fenomeni di degradazione delle pareti rocciose circostanti. Sicuramente il volume del ghiacciaio si è ridotto in misura considerevole in questi ultimi anni, in particolar modo nella parte bassa, e il fenomeno è destinato a continuare se si tiene conto del limitato innevamento dell’inverno 1989-90 e se le temperature estive si manterranno vicino ai valori degli anni scorsi . Come già osservato da altri Autori, la presenza di un ghiacciaio in quest’area è un fatto del tutto anomalo, legato a vari fattori strettamente locali quali l’esposizione, la morfologia e la copertura detritica. Credo sia da attribuire soprattutto a quest’ultimo fattore la sopravvivenza recente del Calderone, che si potrebbe definire un piccolo “ghiacciaio nero”. Tutto il settore inferiore del ghiacciaio presenta una caratteristica morfologica superficiale a coni e avvallamenti, cavità e dossi, che ricorda, fatte le debite proporzioni, quella del Miage o addirittura dei giganteschi ghiacciai del Pamir e del Karakorum. Solo sui fianchi dei coni detritici più ripidi affiora il ghiaccio vivo, subito preda dei processi di fusione, che innescano fenomeni di scivolamento dei materiali superficiali particolarmente evidenti nel settore sinistro idrografico. Ghiaccio si ritrova anche al disotto della grande morena frontale che sbarra il circo ove è contenuto il Calderone, che può quindi essere definita, almeno in parte, “ice-cored moraine”; è ghiaccio ben stratificato, compatto, ricco di clasti negli strati inferiori, la cui sopravvivenza e la cui evidenza morfologica rispetto alla fascia del ghiacciaio situata più a monte, ma a quota inferiore, sono sicuramente dovute alla protezione esercitata dallo spesso mantello detritico. Come appare da questi brevi cenni, il Ghiacciaio del Calderone costituisce sicuramente un oggetto di studio di estremo interesse per la sua localizzazione e per i suoi caratteri intrinseci. Fra questi la determinazione della velocità di scorrimento mediante ripetute misure topografiche, il calcolo degli spessori di ghiaccio con metodi geoelettrici, l’analisi fisico-chimica del ghiaccio contenuto nella morena e la datazione della morena stessa per identificare il periodo di massima espansione storica. Sono tutti temi di studio che potranno dare notevoli contributi alle conoscenze della storia naturale di questo lembo d’Abruzzo e probabilmente suggerire anche ipotesi sull’evoluzione futura. Nel concludere questa breve nota sulle recenti ricerche sul Ghiacciaio del Calderone con l’augurio che queste possano continuare a svilupparsi.
Oggi di quel che era del Ghiacciaio del Calderone rimane solo ghiaccio residuo tra pietre e detriti. Un ghiacciaio quasi del tutto scomparso a causa dei cambiamenti climatici e declassato, già dal 1990, a “glacionevato”, cioè un accumulo di ghiaccio di ridotta superficie e di limitato spessore.
Questo apparato glaciale, negli anni passati, ha fatto tanto parlare di se ma in quest’ultimo periodo la situazione è decisamente compromessa. La perdita di massa generalizzata di diversi metri, specialmente negli ultimi vent’anni ha determinato una situazione oramai quasi irreversibile. Infatti già nei primi anni del nuovo millennio il ghiacciaio del Calderone si era separato in due placche, una è rimasta sotto la Vetta Occidentale a quota 2800, mentre l’altra è rimasta nella morena inferiore a quota 2700 ca., separate da una strettoia centrale dove sono affiorate le rocce montonate, tipiche formazioni calcaree rilasciate dal ghiaccio in scivolamento. Specialmente l’ultimo quinquennio l’apparato glaciale ha subito una pronunciata riduzione di spessore che hanno evidenziato una perdita massa generalizzata di diversi metri.
Effettivamente, c’è la necessità, al di là degli scoop, di fare il punto sulle condizioni del ghiacciaio e sui possibili scenari futuri (i più “torbidi” vedono le due placche ridotte a pochi metri di spessore o fuse nei prossimi anni), con dati aggiornati e confermati da analisi scientifiche. Per questo è urgente intervenire collettivamente e al più presto: la politica deve fare la sua parte mettendo in atto azioni concrete passando dalle parole ai fatti; ma in questa partita, che riguarda e coinvolge tutti, anche i cittadini possono e devono dare un mano nel loro vivere quotidiano.
Proprio quest’anno, al Ghiacciaio del Calderone, è in corso un’attività di ricerca con l’ausilio di apparecchiature georadar da parte del CETEMPS dell’Università dell’Aquila, dell’Università di Roma 3, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del C.N.R. per un monitoraggio più completo su questa vedretta. A breve verranno pubblicati i dati scientifici.