L’importanza della neve e del ghiaccio per la storia umana è ben più centrale di quanto si possa immaginare perché fin dalle età più remote l’insostituibile funzione del “freddo”, parallelamente al sale e al fumo, ha avuto una strategia di conservazione degli alimenti, in primo luogo della protezione delle proteine animali.Il ghiaccio è stato usato fin dall’antichità. Solo per fare qualche esempio: nella Bibbia Isacco offre ad Abramo “latte di capra misto a neve” (Mangi e bevi…); una tradizione storica racconta che re Salomone era un grande consumatore di bevande ghiacciate e che Alessandro Magno, durante le sue campagne in India, pretendesse un continuo rifornimento di neve che amava consumare mescolata a miele e frutta. Dalla Mesopotamia, l’uso della neve ghiacciata passò all’India, alla Cina e al bacino del Mediterraneo. Per esempio, nel 1948 Jan Nougayrol, studiando una tavoletta incisa con scrittura cuneiforme, afferma che nella regione del Medio Eufrate la popolazione aveva già trovato il modo di conservare il ghiaccio nel II millennio a.C. Cleopatra offrì a Cesare e Antonio frutta mescolata a ghiaccio. Ne parla anche Seneca di queste gustose macedonie di frutta con miele e neve! I Romani chiamavano nivatae potiones, dei tipici dessert freddi, ottenuti conservando in alcune cave la neve raccolta durante gli inverni, per poi portarla in città durante le stagioni più calde, mescolandola ad altri ingredienti. Nei banchetti aristocratici della Roma Imperiale, infatti, non mancava mai una portata di neve con frutta tritata e miele. Secondo Quinto Massimo Gorgo, nei banchetti ufficiali dell’Imperatore Nerone si serviva una specie di moderno sorbetto: una bevanda realizzata proprio con neve, miele e frutta finemente trita. La neve era inoltre utilizzata per raffreddare il vino, grazie all’uso di particolari vasi chiamati Psykter, caratterizzati da una forma stretta alla base e larga verso l’imboccatura. Lo speciale vaso, una volta riempito con il vino, veniva posto in un cratere colmo d’acqua e ghiaccio per raffreddarne il contenuto. Ma i Romani usavano la neve pressata anche per abbassare le temperature delle vasche frigidarium delle terme e per raffreddare l’acqua da dare agli ammalati, in diverse terapie. L’utilizzo del ghiaccio tornò in auge quando nel XIII e XIV secolo, a seguito delle Crociate, nacque una nuova classe sociale che, arricchitasi saccheggiando l’Oriente da cui aveva appreso anche usi e costumi, ricercava uno stile di vita più raffinato, cosa che implicava anche l’uso di neve e ghiaccio per rinfrescarsi nella stagione calda. Da questo periodo si cominciarono a costruire ghiacciaie possibilmente vicino ai castelli o ai borghi. Con la nascita della borghesia e la ridistribuzione della ricchezza il consumo di ghiaccio naturale cominciò ad interessare maggiori fasce della società, tanto che la produzione lievitò e si sviluppò. Infatti l’uomo non solo sviluppò la necessità di trovare refrigerio, specie durante la stagione estiva, attraverso la disponibilità di cibi e bevande fredde, ma, anche, di avere a disposizione una sorgente fredda per conservare i cibi, di avere una riserva di acqua potabile per i periodi di siccità e di avere la possibilità di curare febbri, ascessi, contusioni e malattie con implicazioni termiche. L’odierna tecnologia consente la produzione del ghiaccio artificiale in maniera semplice e in ogni casa, tramite frigoriferi e congelatori, ma, evidentemente, non sempre è ed è stato così. Infatti, nei paesi a clima temperato, l’utilizzo della neve era consuetudine sia per l’uso alimentare sia per quello medico: essa veniva raccolta in luoghi esposti a nord, freschi e umidi, quali sotterranei, grotte, scantinati e fosse naturali, oppure in costruzioni apposite, chiamate neviere.Le neviere, hanno assunto varie forme e tipologie in funzione della zona geografica in cui si trovavano e a seconda delle necessità locali; in alcune zone dell’Appennino le neviere appaiono come semplici depressioni nel terreno, pressoché circolari, con diametro e profondità da 5 a 10-20 m. In altre zone, specie nell’arco alpino ma anche in molte zone dell’Appennino meridionale, le neviere sono costituite da vere e proprie costruzioni in muratura, con tetto a varie falde, senza finestre e con la sola porta di accesso. Durante l’inverno venivano riempite con neve fresca: se si deside rava ottenere ghiaccio, la neve veniva pressata con i piedi oppure con mazze artigianali in legno. Se la profondità della neviera lo permetteva, si comprimevano più strati di neve, intervallati da strati di frasche e foglie secche, che avevano funzione isolante. Questo sistema consentiva di mantenere freddo lo strato più pro fondo anche quando si estraeva la neve o il ghiaccio dagli strati più superficiali. Per il trasporto nei luoghi di utilizzo o di vendita del ghiaccio si usavano vari sistemi, talvolta muli, altre volte, quando gli accessi e le vie di comunicazione lo consentivano, slitte, carretti, oppure vere e proprie teleferiche. Lungo l’arco alpino ogni malga aveva la propria neviera e serviva per conservare meglio il latte nell’attesa di averne una quantità sufficiente per l’avvio della trasformazione in formaggio. Oggi le neviere, un tempo attive, sono abbandonate nella maggioranza dei casi, non sono più riutilizzabili ad altro scopo e risultano riconoscibili solo da poche e sempre meno evidenti tracce. Quelle scavate direttamente nel terreno sono state ricoperte dai detriti depositati dall’azione delle acque superficiali e degli altri agenti erosivi; di quelle in muratura rimangono, talvolta, ruderi irriconoscibili.
La Linea Gustav è un cammino lungo 130km che, attraversando 20 comuni tra le province di Chieti (area Sangro Aventino) e L’Aquila (comunità montana Alto Sangro), giunge al confine tra il Molise e Lazio. Il cammino, partendo dalla foce del fiume Sangro, sul Mare Adriatico, risale le sue sponde fino al comune di Sant’Eusanio del Sangro, da qui inoltrandosi tra le floride valli dei fiumi Sangro ed Aventino, raggiunge le propaggini meridionali del Parco Nazionale della Majella. Il cammino si conclude ad Alfedena, nel Parco Nazionale Abruzzo, Lazio e Molise.
“Pochi giorni dopo la firma dell’Armistizio dell’8 settembre 1943 treni carichi uomini iniziarono ad arrivare nella piccola stazione di Alfedena-Scontrone, preannunciando l’arrivo degli occupanti che, dalla metà dello stesso mese, iniziarono a stabilirsi ad Alfedena. I Tedeschi cominciarono a fortificare il territorio e ad attuare rastrellamenti di uomini da utilizzare per i lavori più faticosi, scavare trincee e camminamenti in prossimità della stazione ferroviaria e lungo il crinale che divide Alfedena da Barrea, qui erano posizionate le contraeree e i cannoni a lunga gittata che sparavano direttamente sulle postazioni alleate in prossimità di Rionero Sannitico, Montenero Val Cocchiara ma anche a sud-ovest in direzione di Cassino. I genieri Tedeschi erano invece impegnati nella posa di campi camminati. Sul tetto dell’edificio scolastico di Alfedena, sede del comando Tedesco, fu disegnata un’enorme croce rossa per simulare la presenza di un ospedale, così come una analoga croce rossa era posta sopra molti dei camion. Il 5 ottobre gli aerei alleati per la prima volta fecero fuoco su Alfedena, mitragliando le riserve di carburante che si trovavano nei pressi della stazione. Non ci furono vittime ma per la popolazione fu un chiaro avvertimento, infatti il paese fu colpito per primo dall’imprevisto e inaspettato bombardamento del territorio altosangrino operato la notte dell’8 ottobre, esattamente un mese dopo l’Armistizio, dagli aerei alleati. Il paese fu illuminato a giorno dal lancio di bengala, la popolazione alfedenese si rifugiò nei boschi adiacenti l’abitato e parte a Scontrone, paese ritenuto più sicuro perché fuori dalle grandi vie di comunicazione. Le bombe colpirono alcuni quartieri e le vittime furono numerose. Il castello con annesso il borgo medievale e la chiesa madre vennero ridotti in macerie, molte strutture storiche andarono perse irrimediabilmente. Il paese cambiò per sempre il suo volto. Anche il museo archeologico, che raccoglieva i meravigliosi reperti della necropoli sannita, venne danneggiato e parte dei reperti furono trasportati in Germania da un ufficiale nazista e qui vi rimasero fino a qualche decennio fa, quando l’Università di Tubinga li restituì al comune di Alfedena. Le montagne e i boschi diventarono un crocevia di persone: civili in cerca di cibo e legna, pattuglie tedesche e i soldati fuggiti dal campo di prigionia di Sulmona con l’intento di raggiungere gli Alleati oltre la linea. Il 26 ottobre il comando tedesco convocò presso la piazza di Alfedena i Podestà dei comuni di Scontrone, Alfedena e Barrea, insieme ai sacerdoti e ad alcuni interpreti per avviare le procedure di sfollamento ed emise il bando con cui i Tedeschi imponevano l’abbandono del paese da parte di tutti gli abitanti. Uomini, donne, anziani e bambini vennero caricati su camion e condotti ad Avezzano dove rimasero fino al giugno del 1944. I Tedeschi minarono i ponti, la ferrovia, le strade, le case e tutto ciò che potesse rallentare l’avanzata delle truppe alleate, compresa la sede della banca cooperativa popolare di Alfedena (attuale sede municipale). Due postazioni artiglieria contraerea scavate nella roccia sono ancora visibili sulla dorsale montuosa che divide Alfedena e Barrea, facilmente rintracciabili a pochi metri dalla SS83 Marsicana a metà fra i due capoluoghi, così come alcune grotte naturali utilizzate come rifugi dalla popolazione civile si trovano ancora in località Il Piano. Alfedena ha raccolto il suo materiale archivistico, storico e diaristico in una mostra permanente intitolata “Storie per tramandare la storia”, con la volontà di ricondurre tutti gli studi effettuati e le raccolte di archivio in un centro di studi storici.”