Questa grotta è un vastissimo antro dove trovano riparo pecore, capre e pastori, sembra come scavata artificialmente nella roccia della parete orientale di Pizzo d’Intermesoli e nel suo fondo si rinviene pirite spesso magnificamente cristallizzate di qui il nome alla grotta e alla credenza popolare di oro nascosto.
Già dai rilievi di Orazio Delfico del 1784, quando conquistò la Vetta Orientale del Corno Grande, la cui relazione è riportata in un opuscoletto di poche pagine poi presentato a Napoli nel 1812 si rilevano le seguenti osservazioni: “…Qui fu il termine del mio penoso cammino; e qui finalmente visitai la grotta “vena d’oro”. Nulla fui sorpreso però in trovare invece di oro del ferro mineralizzato in piriti giallognole e lucenti; poiché questo è il comune inganno del volgo. Tuttavolta per accertarmene maggiormente volli sottoporla a replicate analisi chimiche, dalle quali non ebbi, che i componenti delle piriti”.
Tante leggende aleggiano su questa cavità posta a q.1650 nella parte finale di Campo Pericoli, proprio sotto le strutture d’Intermesoli. Il D’Amato ne racconta una pubblicata nel libro “Gran Sasso d’Italia le Ascensioni dal 1573 al 1913, ed Andromeda 1994”. Uno spaccato della vita sui nostri monti riferendosi in particolar modo ad una leggenda tramandata dai pastori dell’epoca che tratta di tesori immensi. “…Un altro passatempo ce lo procurarono i pastori coi loro racconti, i quali potrebbero bene interessare qualche appassionato spiritista che abbia voglia di arricchire. E’ per lui che mi piglio la libertà e la pena di ripetere, di ripeterne uno: A Conca d’Oro trovavasi… nei tempi che furono… il palazzo della Regina Giovanna (in vero Madama avrebbe scelto il sito propizio alle sue ben note gesta!): esso col vastissimo tesoro della Regina fu quivi sotterrato pel volere di un mago (qualche amante abbandonato…) e per virtù della sua bacchetta magica. A guardia di questo palazzo sepolto furono messi alcuni soldati, che debbono lasciare in possesso del tesoro solo chi ha il coraggio di far loro resistenza. Ma qui vi fu discrepanza, dicendo altri che a guardia del tesoro vi stava il mago con un porcellino, i quattro impedivano a tutti di violarlo, il primo facendo generare ipso facto, per virtù della sua bacchetta, un torrente impetuoso, ed il secondo, diventato gigantesco, mettendo in fuga il cercatore di tesori!…” (Sul Gran Sasso d’Italia le Ascensioni dal 1573 al 1913, Ediz. Andromeda, 1994). Un’altra leggenda aleggia su questo antro raccontata da Clorindo Narducci sul proprio libro; (Uno Zaino di Ricordi Ediz. Andromeda 2008). “Qui è necessario che sia io a raccontare qualcosa che mi è stato lasciato come un testamento verbale. Non ritengo di tradire un segreto pur avendolo appreso come tale, tanto meno credo di offendere la memoria di chi mi dette tanta fiducia e stima mettendomi a conoscenza di quello che lui assolutamente riteneva un segreto e un privilegio conoscerlo, in quanto trattavasi per lui della possibilità di diventare ricchissimo. Io dico a lui per la stima e la fiducia dimostratami, grazie, ma non potendo appunto accettare come verità una leggenda ed essendo assolutamente convinto dell’inesattezza di qualunque tesoro, inteso in quel senso, racconto il contenuto di questo lascito con la segreta speranza che, se lui mi “vede”, comunque mi perdoni per questo pseudo tradimento. Un pomeriggio di quasi cinquanta anni addietro fui avvicinato da Ernesto Paglialonga, “Scella” figlio di Luigi, guida di montagna, il quale con aria misteriosa e alquanto solenne mi fece promettere di non rivelare mai il segreto che stava per consegnarmi poiché andava tassativamente lasciato in eredità ad una guida alpina. Lui lo lasciava a me perché, per sua personale convinzione, ero l’unica guida del paese che esercitavo tale professione per mestiere e non per il solo piacere di andare in montagna e anche perché io ero discendente di una stirpe di montanari e di guide alpine, ricordando lui mio nonno prima e mio padre dopo, quando andavano in montagna. Questo mi consacrava legittimo erede, testuali parole, degno di ricevere questo segreto che lui aveva ricevuto dal padre e che a sua volta lo aveva avuto tramandato dalle guide che lo avevano preceduto. Queste parole mi richiamarono alla mente il mio bisnonno, ma, sempre a parole di Ernesto, all’epoca in cui il genitore lo metteva a conoscenza di detto segreto non vi erano guide o fu una sua libera scelta, quindi date le circostanze il depositario divenne appunto Ernesto. Dopo una lunga chiacchierata prendemmo accordi per il giorno successivo di recarci a Campo Pericoli, cosa che puntualmente avvenne, arrivati poco prima della Grotta dell’Oro lui si fermò e mi disse: “Ecco, siamo vicini”, -infatti inerpicandosi per qualche diecina di metri mi portò dove erano depositati molti massi- “ecco vedi questa collina, qui sotto è sepolto un immenso tesoro, di questo tesoro deve diventarne padrone solo una guida alpina. Io ho avuto questa eredità da mio padre dietro promessa che avrei ristabilito il ciclo giusto, se possibile, altrimenti fare come lui stesso aveva fatto. Adesso tocca a te; al momento certo nulla è possibile perché troppo è il materiale da rimuovere, ma in futuro, forse sarà possibile”. “ Per me è una delle tante ‘storie’ dei pastori simile alle tante che si raccontano per tutti i versanti del Gran Sasso, nessuno escluso, dove corrono leggende similari e dove cambiano di volta in volta solo i personaggi. Tuttavia mi sono ripromesso che un giorno o l’altro condurrò qualcuno in quel posto per assolvere alla promessa che ho fatto a Ernesto e per rispetto alla parola data della quale lui era fermamente convinto. Il taciturno Scella, dopo che si era tolto il peso del mandato del padre, era diventato un po’ più loquace sull’argomento tesoro, dell’esistenza del quale era assolutamente persuaso. Al punto da infilarmi, pur non credendo ai tesori nascosti, un grosso dubbio a passaggio nei meandri del mio cervello: così metto a confronto i periodi di questo racconto e l’epoca del brigantaggio. Una giusta considerazione dell’attività svolta da questi personaggi frequentatori dei nostri monti mi porta a credere verosimile che molti avranno anche nascosto i frutti delle loro malefatte. Tenuto conto proprio delle loro losche attività viene da pensare che potrebbero anche essere diversi coloro che, ghermiti dalla signora con la falce, magari senza preavviso e quindi dipartiti senza la possibilità di informare eventuali familiari o amici, hanno lasciato tali tesori a qualche fortunato e sconosciuto cercatore di tesori o solo di funghi, che nel suo peregrinare si è trovato a cercare proprio nel posto dove l’ignoto e involontario benefattore aveva sepolto gli illeciti proventi della sua disonesta attività”.
Per dovere di verità e far capire da dove provengono i veri toponimi dell’area interessata riporto, sempre del D’Amato, un passo che parla della presenza di un bosco di mandorle rendendo logico il toponimo della “Piana delle Mandorle”; “…Salimmo su pei campi coltivati, a capo dei quali, volgemmo a sinistra, a S.O. guadagnammo la vallato dell’Arno, lungo la quale scorre un rivolo dello stesso nome. Questa valle si apre tra il versante occidentale del Corno Piccolo a sinistra e quello orientale del monte d’Intermesoli a destra. Essa a misura che s’inoltra tra due monti prende diversi nomi, comincia col nome di Piano delle Mandorle avente a destra il rio Arno, a sinistra, sulle pendici del Corno Piccolo, il bosco delle Mandorle e più in avanti il Bosco Pesco Ricciuto a pie’ delle coste di S. Giovanni. Segue il Callarone, e questa parte della valle trovasi di parecchi metri più elevata della prima, e qui che ha la sua sorgente il Rio Arno… Al Callarone segue la valle della Storna che verso la sua metà prende il nome di Vena d’Oro da un antro escavato colà dalla natura, in alto nella roccia calcarea del M. d’Intermesoli, nel qual antro quei terrazzani credono che si nasconde il prezioso metallo e lo chiamano perciò la Grotta dell’Oro (1650m).