Il tema della sicurezza in montagna si ripropone ogni qualvolta succedono ripetuti incidenti, eludendo molto spesso i corsi di formazione e di avvicinamento alla montagna.
Per ogni vita che si spegne in questa bellissima attività che è l’alpinismo sia invernale che estivo, nasce in noi un misto di sentimenti composto da pietà umana, meraviglia e anche rabbia. Ciò è giustificabile dal fatto che l’andare in montagna è sempre un gesto d’amore inteso come estremo altruismo paradossalmente, e senza contraddizione, verso se stessi , ma soprattutto nei confronti delle bellezze naturali che l’ambiente montano offre senza limiti. L’amore, insito anche nel rapporto uomo montagna, è simbolo di vita e da qui l’impossibilità di accettare che l’esistenza possa spegnersi nei luoghi in cui essa trova la sua più bella giustificazione e forse il suo stesso fondamento. Vita e morte dunque coesistono in un equilibrio delicatissimo ogni volta che si decide di affrontare la montagna inteso come spazio nel quale sperimentare le proprie capacità che dovrebbero essere sempre fondamentalmente atletiche. In quel delicato equilibrio consiste l’attitudine al rispetto di se stessi, della propria vita, ma anche dell’ambiente che vogliamo esplorare. La “sfida” lanciata alla montagna è sempre pericolosa perché c’è in agguato la sopravvalutazione delle proprie capacità e la sottovalutazione di un ambiente che impone esperienza, accortezza e buon senso a chi lo attraversa. Il fascino della verticalità e dell’ascensione esprime l’aspirazione dell’uomo alla conquista dell’altro da sé, in una continua tensione verso l’assoluto. Tuttavia questa condizione preliminare non può offuscare chi si avventura lungo itinerari di evidente difficoltà tecnica, magari con condizioni meteo, chiaramente segnalate dagli organismi competenti, che preludono a vere e proprio previsioni di pericolo, siano esse distacchi di masse di neve sotto forma di valanghe o slavine, ma anche di perturbazioni comunque pericolose per qualsiasi forma di escursionismo. Il punto è che la scarsa considerazione della propria esistenza, compromette a volte anche quella degli altri e allora siamo costretti a parlare di una vera tragedia spesso assolutamente evitabile, con il solo buon senso. Amare la montagna e le infinite possibilità che essa offre per lo svago e l’attività fisica, significa riconoscerla come madre/terra e come tutti i rapporti madre/figlio la morte per omicidio è sempre un’anomalia. In questo caso qualcosa non funziona e parliamo della tragica fatalità, quasi a voler trovare una giustificazione che può risiedere solamente all’imperizia o imprudenza dell’uomo. In ogni caso “la nostra libertà finisce quando inizia quella degli altri” e ciò vale anche nel caso delle scelte funeste compiute in montagna, a valle delle quali c’è il rischio, e a volte, come diverse volte accaduto, anche la morte di chi soccorre, spesso in modo volontario, spinto da uno slancio che l’essenza stessa della vita che si oppone alla morte e non si rassegna ad essa. Anche il cambiamento climatico, specialmente in quest’ultimo ventennio, impone a tutti noi una riflessione ulteriore. Ma questa è un’altra storia da approfondire in altra sede. Cultura, rispetto e senso del limite sono tre termini desueti un po’ a tutti i livelli, in questa società dove sembra possibile, abbordabile, da prendere e consumare, fosse anche la propria esistenza. Al di là di ogni atto normativo, sebbene necessario, che imponga comportamenti più assennati anche in montagna, credo che in quelle tre parole ci sia la sintesi della soluzione per riappropriarsi di un rapporto più giusto ed equilibrato con il mondo circostante.
Da alcuni anni e non ultimo l’avvento della pandemia in molti di noi è cambiato il modo di andare in montagna, o meglio il senso di libertà. Molti altri hanno così scoperto, e nel peggiore dei modi, che la libertà non equivale a poter fare sempre e comunque quello che si vuole e che esistono regole il cui rispetto è alla base della civile convivenza. Regole che, fortunatamente, non devono essere calate dall’alto, da legislatori che si “prendono cura” di ogni aspetto della nostra esistenza, ma che spesso sono adottate, con buon senso e discernimento, dai diretti interessati.
Stiamo assistendo ad una crescente compresenza sui sentieri di montagna, di nuove forme di utenza, eludendo le più elementari norme di sicurezza, laddove la fragilità dei tracciati viene sottoposta ad una erosione sempre più devastante. La presenza delle mountain-bikers dalla pedalata assistita (in realtà sono vere e proprie bici a motore elettrico), la cui presenza sui sentieri di montagna rappresenta un vero e proprio pericolo per gli escursionisti a piedi e per i sentieri che non sono stati realizzati per qualsiasi mezzo meccanico. Queste nuove modalità di accesso ai sentieri vengono pubblicizzate in molte località turistiche come occasioni per vivere, senza fatica o minor fatica, “esperienze d’avventura”, con la consapevolezza di attrarre numerosi frequentatori digiuni di conoscenza della montagna, delle sue oggettive caratteristiche e pericolosità, oltre a danneggiare i tracciati. Infatti le dimensioni dei tracciati corrispondono solo al fabbisogno di percorrenze a piedi (o zampe), costruiti e destinati, secondo la loro genesi, a chi cammina. La frequentazione di questi sentieri dovrebbe avere ben precise modalità di frequentazione, la lentezza e il rispetto dei luoghi, delle persone e dell’ambiente, costituiscono i capisaldi. Anche la percorrenza di alcuni sentieri di alta montagna, quando presi d’assalto dai soli escursionisti, rappresenta un’altra forma indiscriminata di affrontare la montagna. Nel nostro caso il sentiero estivo, impropriamente conosciuto come: “la normale”, per raggiungere la vetta occidentale del Corno Grande, dove molti si sentono in diritto di uscire “fuori sentiero”, percorrere brecciai o spostarsi in ogni dove con il preciso intendo di farsi un selfie, danneggiando quella piccola flora d’alta quota, già sofferente in quell’ambiente ostile, con la conseguente probabilità di far rotolare quelle pietre instabili pericolose per chi ancora si trova più in basso.
La verità è che confondere la libertà con l’assenza di limiti e voler accontentare tutti a dispetto del più elementare buon senso, può condurre a conclusioni aberranti e, in ultima analisi, ad una generale insoddisfazione: meglio adottare scelte semplici e oneste, che tutelino veramente gli interessi da considerare meritevoli, che non sono, come vorrebbe qualcuno, quelli di una categoria di utenti rispetto ad un’altra, bensì quelli più generali che guardano ai fenomeni a lungo termine e non cercano di accontentare le mode di un momento.
Andare per i monti, sciare, arrampicare e quant’altro, rientra tra le attività che presuppongono la valutazione del rischio oggettivo e soggettivo e l’accettazione dello stesso. Purtroppo il criterio di sicurezza zero non esiste, altrimenti andrebbero vietate tutte le attività di montagna compreso il percorrere i sentieri di tutto il territorio nazionale i quali sono continuamente esposti a rischi oggettivi compreso quello di eventuali frane, caduta sassi, temporali, valanghe, ecc, e magari anche eventuali cadute di noi stessi. Con questo criterio bisognerebbe chiudere tutta l’Italia, in quanto il Nostro Paese risulta caratterizzato da un territorio prevalentemente collinare, pari al 41,6%, seguito da quello di montagna, per il 35,% e di pianura, pari al 23,2%.
La nostra esperienza di alpinisti, escursionisti o speleologi ci ha insegnato quanto la montagna non vada sottovalutata e la si debba affrontare sempre con la dovuta consapevolezza, evitandone la banalizzazione che traspare, invece, da molta comunicazione, non solo pubblicitaria, fornendone un’immagine superficiale e distorta. Ricordiamoci sempre che la montagna è così, un ambiente meraviglioso ma impervio, dove l’uomo è un fragile ospite e non deve mai dimenticare che gli errori si pagano caro: perché alla fine, quando “certi” incidenti accadono, quasi sempre di nostri errori si tratta.