A differenza dell’ambiente alpinistico del teramano con gli “Aquilotti” di Pietracamela, già affermati scalatori, soprattutto sul Gran Sasso, l’ambiente aquilano, già negli anni sessanta, annoverava diversi arrampicatori di valore. Infatti, i nostri rocciatori, nonostante avessero raggiunto un livello di difficoltà tecniche superiori a quelle degli “Aquilotti”, per la loro modestia, sono rimasti “eroi sconosciuti” che ogni tanto incontriamo sulla nostra strada. Saranno i ripetitori delle loro vie a rimanere abbastanza sconcertati e sorpresi dalle fortissime difficoltà incontrate: soprattutto in arrampicata artificiale, cose che pochissimi oggi saprebbero fare, anche se dotati di tutto il raffinatissimo armamentario che certo allora non si possedeva, financo la realizzazione di chiodi artigianali.
Nel gruppo degli aquilani, c’erano delle personalità assai definite, che agirono al di fuori di ogni rivendicazione di paese o di provincia, ma unicamente in funzione della loro passione e del loro intento creativo. La presenza del forte Carlo Leone, il quale idealmente era il “padre” di tutti i giovanotti che frequentavano la montagna, ed al quale vanno rispetto, ammirazione e riconoscenza. Già allora si concepiva l’allenamento in maniera sistematica, già tutto proteso con il pensiero alle imprese appenniniche, cercando ogni volta di materializzare nella scalata il concetto ideale della perfezione. O forse semplicemente cercando nell’alpinismo la grande avventura esplorativa. Questi ragazzi, superando se stessi, sono riusciti a spostare il concetto del limite più volte durante la loro carriera alpinistica.
A metà degli anni sessanta, nelle varie ricognizioni che si facevano per individuare una falesia che avesse le caratteristiche per una eventuale salita in “artificiale”, l’occhio cadde su uno sperone roccioso situato nei pressi di Valle Fredda. Infatti dopo un accurato studio, si decise di chiodare la falesia. Il gruppo era formato: dal compianto Carlo Leone, Franco Cerasoli, Paolo Rubei, Carlo Vivio, Emanuele Imprescia, alias “Ciofeca” , Francesco Aloisio, per tutti “Cecco Peppe”, Marcello Pavesi, Giovanni “Puccio” Beolchini, Fernando Di Pietro, detto “Alcadino” il grande, che non è più tra noi, ed altri. Nell’estate del 1966 venne realizzata la chiodatura della severa, seppur piccola, falesia, prestando attenzione ad individuare una via completamente da scalare in “artificiale”. Teoricamente la cosa era anche possibile, ma che tipo di chiodi? Allora non c’erano i chiodi ad espansione, le uniche ditte che avevano cominciato a produrre i chiodi da arrampicata, già dal 1961, erano la Grivel e la Cassin, ovviamente molto costosi. I ragazzi di quell’epoca non maneggiavano molti danari, per cui bisognava arrangiarsi come si poteva, magari andando da un fabbro “amico”, forgiando qualche ritaglio di ferro “inutilizzato”. In questo caso, le mani e l’estro di Paolo Rubei vennero a supporto creando, attraverso tanti segmenti, ricavati da un tondino di ferro, i rudimentali chiodi ad espansione necessari, che ancora oggi sono visibili in parete. Sempre dalla testimonianza del Rubei, questa via era stata concepita per gli allenamenti propedeutici sulla “palestra” di Valle Fredda che successivamente sarebbero tornati utili quando venne scalato l’elegante triangolo della Punta Sivitilli, meglio conosciuto come “La Madonnina”, che si trova sull’itinerario alpinistico della traversata delle “Tre Vette”, nei pressi della Forchetta del Calderone. La sua parete nord, seppur alta solo ca. 40 metri, è caratterizzata da una lastra levigata e compatta, solcata da esili fessure che come strani geroglifici striano la placca che qua e là vanno chiudendosi. È una paretina impossibile in arrampicata libera. Abbiamo ragione di credere che si tratti dell’unica via “in artificiale” presente sul Gruppo del Gran Sasso. I prescelti di quel tempo che realizzarono la salita furono: Carlo Leone e il fortissimo Franco Cerasoli.