L’alpinismo sembra che non subisca cambiamenti nel corso degli anni, anche se attorno tutto è mutevole, nonostante qualcuno, in epoche diverse, ha affermato che si è perso lo spirito –per buona parte a causa delle nuove generazioni- forse per la troppa comunicazione che traspare attraverso l’avvento dei social network dando della montagna una visione a volte distorta. L’alpinismo ha le sue “regole”, la sua forza, i suoi obiettivi e il modo di raccontarli, dalla fase scientifica a quella esplorativa, da quella della ricerca a quella sportiva. Le sue radici attingono a un’epica che ormai si confonde con il mito. L’attività di scalare le montagne ha avuto, negli ultimi duecento anni di storia, tanti cambiamenti, ma l’essenza profonda è rimasta. La stessa che l’Alpinista Musicologo, Massimo Mila definiva: “la divina forza dell’alpinismo”, cioè un’attività dove il pensiero e la conoscenza si fondono con l’azione, laddove la natura è ancora più inaccessibile e selvaggia. Proprio su queste altezze “volano” i desideri degli alpinisti. A volte si pensa ad una scalata fino a diventarne quasi un’ossessione. Si studia un itinerario, si individua una possibile via e ci si prepara. A quel punto inizia l’avventura. Si mettono insieme tutte le forze pur di realizzare il proprio progetto e magari anche un sogno. Il tutto come insegnava il fortissimo alpinista Albert Frederick Mummery, cercando sempre e rigorosamente di salire: “by fair means”, -con mezzi leali-. Poi arriva la conclusione, la fine del “viaggio” e, appagati di aver realizzato il proprio sogno, la felicità. Infatti il ritorno al punto da cui si era partiti è, per certi versi, la discesa alla normalità, mentre si pensa già ad una nuova imperdibile salita, come se dipendesse solo dagli alpinisti, all’infinito. Molte volte questo gioco prevede dei rischi a volte abbastanza seri, oltre a grandi fallimenti, a difficoltà che possono richiedere il superamento dei propri limiti. Va da sé che la sete di ricerca si sposa con un irrinunciabile bisogno di conoscenza, di scoperte e di esplorazioni dell’ignoto. I racconti e le storie degli alpinisti del passato sulle loro salite non sono altro che la necessaria testimonianza, nonché una traccia, per chi viene dopo. Allo stesso tempo rendono reale l’avventura.
Ogni epoca dell’alpinismo ha avuto il suo stile di racconto, dalla fase scientifica a quella esplorativa, da quella di ricerca a quella sportiva. Ci sono delle salite che ci appassionano ancora oggi, come il racconto della prima al Monte Bianco di Balmat e Paccard, a quella di Whymper e Carrel sul Cervino, o alle imprese di Mummery e Mallory. Per non parlare dei libri che raccontano le avventure di Buhl, Bonatti, Messner e di tutti coloro che “abitano” l’olimpo alpinistico.
Oggi viviamo un mondo in cui tutto sembra scoperto, la connessione permanente universale ci consente di chiamare la “mamma” anche dalla vetta dell’Everest. Tuttavia anche i giovani alpinisti non hanno mai smesso di scalare i monti. Anzi, forse nessuno l’ha mai fatto con l’intensità di oggi. Va precisato, nessuno l’ha mai fatto con l’attuale livello tecnico. Va anche detto che sono notevolmente migliorati gli avvicinamenti , con strade che un tempo non esistevano. Attraverso l’avvento dei nuovi materiali tecnici, soprattutto leggeri, sono state possibili le esplorazioni sulle grandi pareti della Groenlandia. Oppure le tante salite sulle più sperdute montagne della Siberia, del Kazakhstan e del Sichuan, senza dimenticare quelle del Karakorum o della Patagonia. Se poi si guarda a casa nostra, soprattutto sulle Alpi, quasi non si riescono a contare tutte le ascensioni e le ripetizioni di altissimo livello, per non parlare dei concatenamenti. Tutto questo con una intensità e una velocità che non si possono nemmeno paragonare al passato. Infatti anche il nostro tempo ha i suoi grandissimi alpinisti. Uno su tutti è Alex Honnold che, con la sua incredibile solitaria della Via Freeride sul Capitan, ha vinto l’Oscar come migliore documentario, dove l’azione di una scalata estrema si fonde con la preparazione, l’introspezione, insieme ai tentativi falliti. La narrazione di questa scalata, a differenza del passato, si diffonde a una velocità che fino a 10, 15 anni fa era inimmaginabile. Non ultimi i social che diventano teatro del racconto quasi in presa diretta. Proprio questa condivisione così immediata è forse la differenza più palpabile con l’alpinismo del passato. Pur tuttavia anche questa possibilità di stare connessi in diretta durante una prima invernale sul K2, non cambia molto le cose. Perché anche gli alpinisti dei “social network” devono salire e scendere con le proprie gambe. Anche gli uomini del nuovo millennio cercano di superare i propri limiti. Pure loro hanno anche dei sogni e delle visioni, che vogliono raggiungere praticando l’alpinismo. Lo fanno nel loro tempo, in questo nostro tempo, con mezzi di comunicazione di cui dispongono e con cui sono cresciuti.
C’è ancora molto da “scalare”, molti limiti da superare e sogni da realizzare. Lo si fa anche oltre le montagne al di là dei “problemi alpinistici”. Questo sguardo è rivolto alle difficoltà del Pianeta, delle montagne e della gente che le abita, che poi sono le difficoltà di noi tutti. Oggi l’andare per i monti è anche cercare una visione capace di spingerci più lontano come recita una famosa frase del Grandissimo W. Bonatti: “chi più in alto sale, più lontano vede. Chi più lontano vede, più a lungo sogna”. Un atteggiamento che poi, ancora una volta, implica pur sempre un ritorno alla realtà quotidiana dove l’essenza immutabile e sfuggente dell’alpinismo fa conoscere un po’ di più se stessi e la vita. Con la citazione di un altro alpinista dei giorni nostri: Augusto “Gimmi” De Col concludiamo questa piccola storia: “la montagna insegna che con la calma, la tenacia e l’umiltà si può arrivare in cima alla vita”.