L’esperienza probabilmente che si vive in montagna, così come in grotta e in qualsiasi territorio naturale, è l’esplorazione. Un atto nobile, spesso appagante, utile tanto a l’uomo quanto alla conoscenza. Tutte eccezioni positive che, come ogni cosa, hanno il loro risvolto. Esplorare una nuova “frontiera” di territorio, andare alla ricerca di nuove conoscenze, magari con l’obiettivo di raccogliere dati da analizzare e restituire alla comunità (non solo scientifica) , non autorizzano a trascurare il problema degli equilibri naturali di habitat che, viceversa, meritano di essere rispettati. Ma c’è l’impressione che oggi il racconto del proprio gesto sovente sia ritenuto, da chi lo compie, più importante del racconto del mondo esplorato. L’esplorazione o l’impresa sembrano sempre più funzione del marketing di se stessi. Questo è un atteggiamento che non si pone la questione dei limiti etici dell’esplorazione e della ricerca. La conoscenza, si sa, è preziosa. Rappresenta un valore. Senza la ricerca non ci sarebbe la conoscenza, senza la conoscenza non ci sarebbe la storia, senza la storia non ci sarebbe identità. Purtroppo oggi quella che viene a mancare è la “sensibilità”, così concentrati sul raggiungimento di obiettivi immediati. Tutto e subito, sempre, in barba alle conseguenze. Solo facendo ciascuno i conti con la coscienza delle proprie azioni si potrà davvero essere espressione della cultura dell’esplorazione e della montagna, messa talvolta a rischio da un atteggiamento irrispettoso. Dopo il nostro passaggio, ogni paesaggio, esposto alla luce o sotterraneo, se non esattamente, deve restare il più possibile com’era.