Da quando è nato il mondo, l’uomo ha sempre cercato un riparo per svolgere le proprie operazioni di sopravvivenza quotidiana. Dapprima ha cercato riparo nelle caverne, successivamente ha cominciato a costruire dei manufatti, di paglia, di tessuto, di pietra, di lamiera, di cemento armato, di ferro, ecc. Il tetto dà sicurezza, senso di protezione è l’ingrediente essenziale dello star bene. L’importante è averlo: un tetto. Per mettercisi sotto quando cala il buio, quando fa freddo e c’è la neve o urla il vento, quando piove che se stai fuori, per noi umani, sarebbe un disastro. C’è stato un tempo in cui i nostri pastori d’alta quota andavano alla ricerca di tetti naturali per poterci soggiornare, sia con gli animali che per loro stessi, avere una sorta di protezione per “vivere” la quotidianità.
Uno dei tetti naturali più famosi è quello della Grotta del Capraro (gliu rottò): si tratta di un ricovero sotto roccia chiuso da muri a secco posto alla ragguardevole quota di 2390 slm, nel cuore della poderosa bastionata meridionale di Monte Corvo, al margine sinistro di un ampia caverna. Tra i pastori di Arischia è nota la localizzazione del sito, anche se la sua frequentazione è venuta meno oramai da moltissimi decenni: viene descritto come luogo quasi inaccessibile, utilizzato in un tempo imprecisato da un “capraro” e dal suo gregge, che vi trovava ricovero naturale la notte dopo aver pascolato lungo le “staffette”, vale a dire le grandi cenge erbose del Corvo… https://www.icorridoridelcielo.it/la-grotta-del-capraro-2/
C’era un tempo in cui anche nell’alpinismo, se si aveva la sfortuna di incontrare un tetto lungo una scalata, il decidere di rimanere là sotto voleva dire comunque tranquillità: la certezza di potersi ritirare dalla parete calandosi per la stessa via percorsa in salita. Però con un senso di momentanea resa, ma riportando a casa la pelle e conservando la possibilità di riprovarci, magari studiando un itinerario diverso. Stiamo parlando di un epoca in cui le pareti erano quasi tutte inviolate e le vie classiche d’arrampicata, che oggi sono descritte nelle guide, erano ancora tutte da tracciare. Affrontare una montagna voleva dire andare incontro all’ignoto, anche a due passi dal “tetto” domestico. Oggi, invece, per uno scalatore forte, un tetto rappresenta “giusto un problema in più” da risolvere, un passaggio da affrontare con la migliore tecnica d’arrampicata, ma soprattutto con i materiali che un tempo non esistevano. Che brividi devono aver provato gli alpinisti di allora quando si trovavano davanti a passaggi impossibili, seppur animati dalla forza di volontà di proseguire a tal punto di sciogliere la paura più gelida e nello stesso tempo di regalar loro sensazioni non provabili dalle comuni persone.
Un misto di emozioni tra ciò che deve aver provato un grande uomo come Colombo nel dimostrare al mondo che non solo ci si poteva spingere oltre le Colonne d’Ercole, ma che lì in fondo c’era un’altra terra che non aveva nulla a che vedere con le Indie conosciute: e ciò che prova un gatto, di notte, sulle tegole d’un tetto, mentre il mondo dorme chiuso nelle case, e lui è l’unico che si gode l’immenso spettacolo delle stelle e della luna.